Rinasce sul web il mito del regista Mario Bava che l’Italia non ha capito

di Paolo Lughi
Per celebrare degnamente il centenario di Mario Bava, l’artigiano romantico del cinema italiano (come si autodefiniva questo geniale sanremese nato il 31 luglio 1914), bisogna partire innanzitutto dal culto che ha sviluppato – e che non accenna a diminuire – fra i suoi sfegatati fan, più o meno celebri. Bava è il regista più amato tanto dal più giovane dei cinefili, quanto dai più venerati maestri del fantastico. Il suo cinema è insieme superclassico e ultramoderno, vintage e pop. Questo è il mistero (irrisolto) di Bava e della sua forma insieme sfuggente e ipnotica.
Lo esaltano, sui social, i blogger di tutto il mondo (per “La frusta e il corpo”, 1963, un anonimo ha scritto sul web: “The best film ever”). Eppure il primo dei suoi fan, Martin Scorsese, ha scritto: «Bava sembra appartenere al secolo scorso».
Ammaliato e insieme disorientato da capolavori come “La maschera del demonio” (1960) o “I tre volti della paura” (1963), Scorsese ha osservato che nei film di Bava «non c’è praticamente storia, solo atmosfere, con tutta quella nebbia e le signore che camminano lungo i corridoi. Una sorta di gotico italiano».
Scorsese ha scritto l’appassionata introduzione del più bel libro su Bava, il sontuoso “Tutti i colori del buio” (2007, costo 300 dollari) del critico statunitense Tim Lucas. Un volume che riesce a comunicare sulla carta la straordinaria potenza espressiva di questo maestro degli effetti fotografici poveri, di questo alchimista e fotochimico dell’horror che la scuola gotica inglese ci invidiava.
«Bava usava colori forti, colori che colpivano – ha detto Quentin Tarantino – ma attenzione, non era un semplice pittore, era uno che faceva action painting al cinema».
Fu un rivoluzionario del colore, ma in generale aveva una padronanza completa delle risorse della macchina da presa. Roger Corman ammirava «il suo lavoro sui chiaroscuri, le angolazioni che supplivano all’angustia del set, l’uso della profondità di campo e i contrasti netti tra luce e ombra».
E quando le parole non bastavano, i suoi più celebri fan gli hanno dedicato sequenze al limite del plagio, da Fellini a Dario Argento, da Joe Dante a Ridley Scott a David Lynch. E infine è arrivato Tim Burton che gli ha dedicato un intero film, “Il mistero di Sleepy Hollow”. Anche Burton, come Scorsese, arriva con Bava al piacere della visione: «Della “Maschera del demonio” – dice Burton – non riesco a ricordarmi la trama, per quanto lo riveda spesso. Eppure resta sconvolgente. E le sue immagini ti bruciano nella testa. Nessuno meglio di Bava racconta una storia attraverso le immagini».
Ex direttore della fotografia di Soldati, Camerini, Risi, Fellini e molti altri, Bava fu quasi “costretto” a esordire da regista a 46 anni, perché il cinema italiano doveva inseguire il nuovo gotico-erotico della casa inglese Hammer e dell’americano Corman. Diresse così “La maschera del demonio”, diventato presto un classico a livello internazionale. Era ispirato a un racconto di Gogol, ma si vedeva che a Bava premevano più i toni della fotografia e i suoi trucchi. E che incredibile inquadratura fu infatti quella della porta che sbatte, con Barbara Steele illuminata dalla luna, vestita d’ombre, con le pupille dilatate e gli occhi fasciati da una maschera di luce, non si sa se vergine o vampira. Magie visive che il maestro riproporrà con l’americana in vacanza Leticia Roman de “La ragazza che sapeva troppo” (1962, il primo dei “gialli italiani” che fecero la fortuna di Argento), o con l’attrice israeliana Daliah Lavi, perseguitata sadicamente da Christopher Lee, incarnazione per eccellenza del vampirismo cinematografico, nello snobbatissimo (all’epoca) “La frusta e il corpo” (1963) (che, in copia restaurata in 35 mm, sarà riproposto in agosto nella retrospettiva Titanus al Festival di Locarno, a cura del triestino Sergio M. Germani).
E’ curioso osservare a questo punto che l’irresistibile rivalutazione di Mario Bava ha avuto come pionieri proprio alcuni esponenti della Trieste “fantastica”. La prima intervista al maestro su “Positif” (una delle due più importanti cineriviste di Francia, o meglio, del mondo), fu realizzata nel 1972 da Ornella Volta, geniale quanto misteriosa intellettuale triestina trapiantata a Parigi. Poi, nel luglio 1976, nell’ambito del Festival della Fantascienza, Lorenzo Codelli e Giuseppe Lippi organizzarono Fant’Italia, fondamentale retrospettiva sul fantastico italiano 1957-1966, col cinema di Bava in grande evidenza. L’intervista-questionario sul catalogo di quella rassegna è ora ripubblicata nel dvd de “La maschera del demonio” (Ripley’s).
«Avevamo contattato Bava tramite gli amici Paul Louis Thirard e Roger Tailleur di “Positif” che lo conoscevano – ricorda Lorenzo Codelli - Lo abbiamo intervistato da Rosati a Piazza del Popolo: una persona simpaticissima e molto autoironica. Non poteva venire a Trieste quell'estate, non ricordo perché. Negli anni successivi lo avevo sentito quasi ogni volta che andavo a Roma. Non parlava dei progetti, né dei film fatti, era poco contento di sé».
Sempre il cinema di Bava fu protagonista un anno dopo (luglio 1977) a Trieste della rassegna FantaScena, curata da Sergio M. Germani con Alberto Farassino. E tutto questo prima della morte del maestro (aprile 1980) e della prima retrospettiva italiana a lui dedicata dal primo Mystfest di Cattolica (settembre 1980).
E ancora, nel 1995, Sergio M. Germani ha curato su Rai 3 quello che finora è l’omaggio televisivo più importante, una notte-Bava ricca di testimonianze inedite, oltre a speciali di Fuori orario e altri recuperi e progetti.
Perché. dunque, questo legame fra Trieste e Bava? Che l’uomo Bava fosse vicino a una certa sensibilità triestina, nel cliché sveviano, lo possiamo intuire dai tratti che ricorda Codelli («autoironico», «poco contento di sé»). Di sicuro i suoi film gotici più memorabili, dal rivoluzionario “I tre volti della paura” (con Boris Karloff), vera “dissezione” a episodi dei meccanismi dell’horror, al più tradizionale “Gli orrori del castello di Norimberga”, interessantissimo per le soluzioni visive, sembrano voler aggiungere un ultimo capitolo a certa letteratura mitteleuropea cara alle nostre parti, come i deliri e le perdizioni di E.T.A. Hoffmann che ispirarono Freud.
Forse Bava non è stato un campione dell’autoanalisi sveviana, ma - come dice Tim Burton – ha spostato più in là, verso il mentale e l’onirico, i confini del fantastico.
©RIPRODUZIONE RISERVATA
Riproduzione riservata © Il Piccolo