Roberto Pazzi, cinquant’anni di versi perchè scrivendo non si sparisce

Ci sono scrittori che si nutrono fedelmente di storia e autori che si affidano più a un’opera di fantasia, di sogno, dove le vicende storiche, se entrano, vengono dilatate anche a un simbolismo esistenziale. Roberto Pazzi appartiene alla seconda natura, così come gli appartengono più generi di scrittura. Ha più di venti romanzi in attivo e otto raccolte poetiche, ma certo come sempre accade la scrittura in prosa è più conosciuta, meno di nicchia, tanto più in uno scrittore come Pazzi, autore di versi fluidi, ma non facili. La nave di Teseo raccoglie ora un’energica antologia poetica dal titolo “Un giorno senza sera” (pagg. 293, euro 18) che comprende una selezione dei libri precedenti, dal 1966 al 2019. Infine contempla anche l’ultimissima produzione inedita. Insomma un viaggio in versi di cinquant’anni dove si evidenzia la coerenza di poetica, di pensiero e di stile.
Una voce fortemente personale, che non pare subire troppi cambiamenti, leggere i versi del 2016 non porta a uno stile diverso rispetto a quello del ‘66, da quegli esordi che lo videro sotto l’ala di Vittorio Sereni. E poi di Giovanni Raboni. È una scrittura che in qualche misura si mantiene granitica, nella sua riconoscibilità e dove, come osserva Alberto Bertoni in postfazione, lo spazio e il tempo la fanno da padroni. Ed effettivamente spazio e tempo nelle mani di Pazzi vengono plasmati nel loro carico di simboli, allegorie e sovrapposizioni: «Vero è anche, però, che non di meno importante del tempo è per Pazzi lo spazio» scrive il critico «anche spazi molto lontani fra loro si sovrappongono e si susseguono entro la sua scrittura, in un’oscillazione costante di geologia e geografia, evocazione fantasmatica e diario di viaggio, transfert onirico e spunto cronachistico».
Si potrebbe dire che la sovrapposizione è proprio un tratto peculiare di questa scrittura apparentemente lineare, ma sempre sdoppiata a partire dalla stessa identità, dalla molteplicità di un io che diviene collettivo, proiettato abilmente anche nel lettore attraverso una riconosciuta “distanza”. Ma appunto, anche sovrapposizione di spazi, di attimi in cui accadono cose diverse in zone diverse. Soprattutto sovrapposizione di sogno e realtà, lezione mutuata da Borges, con Proust uno dei riferimenti fondamentali dell’autore. Ed è proprio nello spazio onirico che il soggetto pare trovare una qualche dimensione oppositiva al Nulla, se non altro il sogno del recupero di un tempo irrecuperabile, di un passato ormai lontano, definito. In ciò Pazzi esprime molta compattezza con la sua opera in prosa, basti pensare all’ultimo romanzo, “Verso Sant’Elena” (Bompiani), dove assistiamo a un Napoleone che, stretto nella morsa della prigionia, pensa e sogna a quello che avrebbe potuto essere e non è stato. Ma altrettanta coerenza tra opera in versi e in prosa la troviamo nella sovrapposizione tra Eros e Thanatos, lì dove si riesce a “percepire che il Tutto e il Nulla / si baciano in bocca”, che pare una perfetta replica al romanzo “Qualcuno m’insegue”. D’altra parte il tempo in tutta la produzione di Pazzi è sempre in prima linea e Proust appare in tutta la sua frontalità di maestro, sintetizzato perfettamente in due versi: “E so che in fondo ho solo un modo / per non sparire, scrivendo”. —
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