Torna la Foiba grande di Carlo Sgorlon il romanzo corale sulle stragi in Istria

La tragedia collettiva che alla fine della Seconda guerra mondiale si è abbattuta sugli italiani della Venezia Giulia, dell'Istria e della Dalmazia è al centro dell’ importante romanzo dello scrittore udinese Carlo Sgorlon (1930-2009), “La foiba grande”, che, uscito per la prima volta nel 1992, torna ora in libreria in una nuova edizione arricchita da una postfazione di Gianni Oliva (Mondadori, pagg. 276, euro 13,50).
Quando Sgorlon pubblicò quel libro all'inizio degli anni Novanta, in pochi ancora parlavano della vicenda delle foibe, che oggi invece fa parte della memoria condivisa del nostro Paese. Anche se non mancano, ogni anno, polemiche e strumentalizzazioni in occasione del 10 febbraio (il Giorno del ricordo, istituito nel 2004, con riferimento alla data in cui nel 1947 fu firmato il trattato di pace che assegnava l'Istria alla Jugoslavia).
Quei fatti storici così dolorosi, a lungo negati persino nei manuali scolastici, vengono ripercorsi da Sgorlon in una narrazione che intreccia storia e invenzione, con il suo tipico stile capace di alternare momenti realistici ad altri visionari. L'autore parte da lontano, niente meno che dalla peste nera del Seicento, per spiegare come si è costituita la società multietnica dell'Istria: una regione prima spopolata degli italiani dall'epidemia e poi ripopolata dagli slavi che su invito della Serenissima vi si trasferiscono per coltivarne le terre. Poi Venezia verrà sostituita dall'Impero austro-ungarico e infine dal Regno d'Italia. Comunque nella società istriana per lungo tempo sono convissuti pacificamente italiani e slavi (sloveni o croati), con la stessa religione (il cattolicesimo), ma con diverse lingue, tradizioni, riferimenti culturali. Durante il fascismo cresce il sentimento anti-slavo, e, da parte degli slavi, quello anti-italiano. Umizza, il paese inventato da Sgorlon e immaginato dalle parti del canale di Leme (in croato, Limski kanal), dove si svolge la trama del romanzo, nell'ultima parte del libro vede l'esodo dei cosiddetti filo-italiani, durante i primi tempi del potere di Tito. I nostri connazionali che si rifiutano di partire finiscono nel nulla: «Più veniva avanti e si condensava la voce degli scomparsi gettati nelle foibe, più l'esodo si allargava, perché ormai la sua febbre aveva toccato tutta la gente istriana, ed era la fuga di un popolo intero». Una fuga di massa che a un certo punto sembra l'unica difesa possibile dalla pulizia etnica messa in atto dalle autorità comuniste, e non solo: la violenza, infatti, come scrive Gianni Oliva nella postfazione al volume, «sfugge al controllo di chi è deputato a guidarne l'uso istituzionalizzato, si frammenta negli abusi personali, si alimenta di brutali semplificazioni (con l'equivalenza "italiano = fascista") e spesso colpisce con tragica casualità».
Anche Sgorlon puntualizza la dimensione politica della situazione: «Era in atto un genocidio, e chi non voleva entrare nel fiume dell'esodo, sgombrando il campo agli occupanti, veniva fatto sparire. Non v'era più scampo per gli istriani dissidenti. Il comunismo non c'entrava per niente, era soltanto la faccia deforme di un feroce nazionalismo di contadini affamati di terra». La parte più consistente del romanzo ruota attorno al personaggio di Benedetto Polo, uno scultore emigrato da giovane dall'Istria in America, che ritorna al paese natale poco prima dello scoppio della guerra. Ma il romanzo è soprattutto una narrazione corale, che, attraverso le vicende dei singoli personaggi, riassume elementi storici più ampi. Insomma, un libro questo di Sgorlon, che possiede la forza di un'importante testimonianza. Scrive ancora Oliva: «Difficile stabilire quanto Sgorlon abbia contribuito alla maturazione di una coscienza collettiva: certo è che questo suo romanzo è uno dei tasselli che hanno permesso di ridefinire la nostra memoria nazionale». —
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