“Tre sorelle” di Cechov da Venezia a Udine con la regista Jatahi

di ROBERTO CANZIANI A Mosca, a Mosca. Sono sempre in partenza, le “Tre sorelle” di Anton Cechov. E non partono mai, da più di un secolo. Ma se ne andassero, una buona volta. Lo acquistassero, il...
Di Roberto Canziani

di ROBERTO CANZIANI

A Mosca, a Mosca. Sono sempre in partenza, le “Tre sorelle” di Anton Cechov. E non partono mai, da più di un secolo. Ma se ne andassero, una buona volta. Lo acquistassero, il biglietto per Mosca, sembra dire con ironia sudamericana Christiane Jatahy. Al festival di teatro della Biennale di Venezia, ha debuttato il suo “E se elas fossem para Moscou?”, reinvenzione di un classico moderno che la regista brasiliana ha elaborato partendo dal dramma di Cechov. Per quelle tre, Olga, Mascia e Irina, nel 1900, Mosca era il luogo del desiderio, la speranza del cambiamento. Per le tre giovani donne che la Jatahy porta in scena (e contemporaneamente sullo schermo, parte integrante del suo spettacolo) Mosca è invece la voglia di Altrove. «All’inizio del lavoro – racconta – siamo andati a Parigi, a Francoforte e a Sao Paulo, e abbiamo chiesto a persone di diversa estrazione sociale cosa fosse per loro l’Utopia. Ne è emerso un documentario sul desiderio di cambiamento nel mondo di oggi».

Hanno una forza speciale, davvero innovativa, gli artisti come Jatahy, che da oltre un decennio si affacciano da oltreatlantico e portano una boccata d’aria nel panorama di finestre chiuse del teatro europeo. Rafael Spregelburd, Constanza Macras, Claudio Tolcachir sono figli dell’Argentina della crisi. Così come Jatahy viene da un Brasile politicamente inquieto. E tutti sono capaci di ribaltare il dispositivo teatrale che sembra cristallizzato, qui, dalle nostre parti, sui formati del ‘900. Spregelburd lavora con la filosofia e le teorie matematiche della complessità. Macras combina diritti civili, politica e danza. Jatahy fa lo sgambetto al cinema, sovrapponendogli il teatro. E viceversa.

Non è un caso se tutti tre sono stati e saranno “maestri”, chiamati dal CSS di Udine a condurre le sessioni internazionali dell’Ecole des Maitres, il master di altra formazione per attori che da 25 anni si tiene in Friuli e in alcune città di Belgio, Francia, Portogallo. Negli anni scorsi erano stati Spregelburd e Macras guidare i giovani professionisti europei con i loro metodi. Quest’anno, tra il primo e il 28 settembre, sarà proprio Christiane Jatahy a condurre 16 giovani attori, selezionati nei giorni scorsi, in un laboratorio che cinematograficamente si intitola “Cut, frame and border”, ovvero gli strumenti con cui si 'disegna' un film: il taglio, l’inquadratura, la cornice, ma applicati al teatro. Una settimana di lavoro a Udine, per presentare poi le diverse tappe di un work in progress a Roma, Coimbra, Liegi, Reims e Caen.

«Partiremo dalla cinematografia di Robert Altman - spiega Jatahy, anticipando il percorso della 25a edizione dell'Ecole des Maitres - ma lavoreremo poi su relazioni contemporanee: appartamenti stipati, città abbandonate, scontri e violenze dentro le grandi differenze sociali».

Utilizzando magari telecamere a braccio (come succedeva nel suo film "A falta que nos move", 13 ore di girato continuo, senza tagli, rimontate poi in un film molto apprezzato nei festival internazionali). Oppure telecamere di sorveglianza (come aveva fatto in "Corte seco"). O ancora insinuandosi negli spazi domestici (formula che aveva utilizzato a Londra, nel progetto "In the comfort of your home", una doc/video installazione in cui filmava le performance di 30 artisti brasiliani nelle loro case inglesi).

Ma la forza di Jatahy è quella di essere contemporanea anche partendo dalle questioni nodali che autori come Cechov o Strindberg hanno iscritto nei loro grandi titoli (a Venezia lo scorso anno la regista aveva fatto vedere "Signorina Giulia"). «Desideri, insoddisfazioni, ricordi, sogni» con i quali formare un atlante di «documenti politici sul mondo contemporaneo e sulla condizione umana».

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