Un Parco archeologico industriale a Trieste dal Porto al Gasometro

la proposta
In questi a Trieste tempi si parla molto di Turismo Culturale legato alla letteratura, ma ci sono anche altri campi che potrebbero rendere più preziosa la città, in un momento di rilancio. Ci riferiamo al cosiddetto Turismo Industriale. Un concetto abbastanza recente nel panorama organizzativo dell’accoglienza. Questo settore si articola su due piani: quello del divertimento e quello che rientra nell’eredità storico-didattica del territorio.
Cosa si intende per Turismo Industriale? Innanzi tutto l’immissione dell’industria sul mercato turistico. Negli ultimi anni, infatti, è cresciuta in Europa la necessità di rappresentare, sia storicamente che sul piano scientifico, le tappe evolutive dell’industria. Questa scelta si attua su due fronti: aprire ai visitatori fabbriche del territorio e creare veri e propri Parchi storici dell’industria. Nel primo caso, come è avvenuto a Monaco per le officine Volkswagen o in Inghilterra a Stoke-on-Trent sede della Royal Doulton China (porcellane) o in Irlanda a Dublino per la fabbrica di birra Guinness, si tratta di organizzare visite turistiche che spieghino come nascono questi prodotti (si chiama, tecnicamente, “visitor experience”).
Nel secondo caso entra in gioco la storia industriale, che si colloca nell’ambito dei cosiddetti “parchi storico-museali”. Nel senso che vengono mostrate le tappe evolutive di una precisa filiera. Dunque possiamo andare indietro nel tempo (dalle botteghe artigianali romane di Pompei alle miniere d’oro romane del Galles) ma anche possiamo soffermarci sulla Rivoluzione industriale dell’Ottocento, con i suoi monumenti meccanici, con i primi macchinari a vapore per gestire i carichi nei porti, e così via. In questo campo in Italia si sta facendo molto. Per esempio, in Lombardia, sin dal 1989 si è provveduto al censimento dei monumenti esponibili al turismo e ne è nata persino una rivista specializzata: Archeologia industriale (promossa dalla Fondazione Micheletti di Brescia).
Se la valorizzazione turistica, per citare un caso eclatante, del comprensorio industriale di Crespi d’Adda in Lombardia, un sito architettonico unico nel campo della gestione museale dell’industria (entrato a far parte della World Heritage List dell’Unesco) ha portato a soddisfare una forte richiesta di turismo (migliaia di visitatori), ciò non toglie che anche a Trieste ci sia ancora molto da fare, puntando su un originale Parco archeologico industriale. Il pensiero, ovviamente, va subito alla Centrale Idroelettrica del Porto vecchio, perfettamente restaurata e fruibile, cui si potrebbe aggiungere l’artistico Gasometro di via d’Alviano, un monumento che va conservato e prima o poi utilizzato. In questo secondo caso la sua visita, ancorché illustrata nelle sue funzioni storiche, potrebbe rientrare in un “pacchetto turistico” specifico. “Pacchetto” a cui si dovrebbe aggiungere un altro luogo interessante della nostra storia industriale: il complesso di Androna Campo Marzio.
Di che si tratta? Sono in pochi a saperlo o a tenerne conto, ma questa “androna”, situata in dirittura del mare e sulla linea di un grande squero perfettamente operante tra Sette e Ottocento, è stata una straordinaria fucina produttiva di centinaia di navi in epoca asburgica. Infatti, sul suo percorso, che era chiuso da un portone, si possono ancora notare tutti gli edifici che contenevano officine, negozi specifici, luoghi di elaborazione dei materiali e di assembramento che presiedevano alla filiera di produzione dei vascelli. Si tratta di molti edifici anche di rilievo architettonico-artistico, per fortuna tutelati dalla Sovrintendenza (le cui maglie sono spesso piene buchi, si veda solo il caso Pirona e il più recente Caffè Cattaruzza, sciaguratamente smantellato da Generali). Percorrere l’Androna Campo Marzio, dunque, se guidati da una serie di targhe a leggìo da approntare all’uopo, significherebbe fare un appassionante viaggio nella storia della cantieristica triestina degli ultimi trecento anni.
Questo importante complesso rientra nell’ambito dell’Arsenale del Lloyd, e mostra gli edifici che furono sedi di magazzini, laboratori artigianali, fornaci produttive. Come si legge nel prezioso studio universitario del 1983 (autori D. De Rosa, A. Fumarola, coordinati da E. Valcovich), per “leggere” zona si può andare indietro sino al 1830, quando Chiarbola Inferiore era poco abitata e densa di campi coltivati (con la presenza di alcune ville patrizie come la villa Risnich e la villa Murat, non più esistente). Lì John Borland, cittadino inglese, acquistò terreni che poi fecero gola al Lloyd che necessitava di spazi per impiantarvi una sezione del proprio arsenale. Ci fu un accordo e nacque Androna Campo Marzio, che comprendeva anche una fonderia e un’officina meccanica (che è attualmente una della sedi del Dipartimento di Studi Umanistici). Come si legge, infatti, in una relazione del 1839, in quell’area «non mancano vasti fornelli e incudini che ci danno le ancore e le ampie caldaie, mentre non manca una fonderia per il bronzo e il ferro, ed escono belli e forbiti dai tornii lunghi cilindri, parti di non lieve importanza nella macchina a vapore, che finora si pagavano a caro prezzo altrove» (si veda, a questo proposito, lo studio di A. Seri e S. degli Ivanissevich “San Vito già Chiarbola”, Italo Svevo, Trieste 1980). A quando, dunque, un recupero di questi gioielli del nostro patrimonio storico industriale? —
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