Uomini in lotta contro la furia del mare sono come “Gabbiani nella tempesta”

Nel romanzo di Einar Kárason edito da Einaudi la metafora di una sofferenza condivisa



Il mare in tempesta è una fabbrica di metafore e suggestioni variamente combinate per qualsiasi narratore, siano scrittori o registi, anche se non è facile evitare i cliché o, peggio, cadute nel grottesco. Ma quando il racconto riesce, allora è difficile staccarsi dalla pagina, e le immagini e le emozioni di quel racconto rimangono a lungo.

Nel febbraio del 1959 una furibonda tempesta investì alcuni pescherecci islandesi al largo di Terranova, causando diversi naufragi e almeno duecento vittime. A quella vicenda si è ispirato Einar Kárason, definito dalla critica “il Faulkner islandese” , per il suo romanzo “Gabbiani nella tempesta”, ora pubblicato da Einaudi nella traduzione di Stefano Rosatti (pagg. 120, euro 15). Il racconto inizia nel pieno dell’azione, con il peschereccio Máfur già alla prese con una furibonda tempesta invernale nel mare della Groelandia. Le prime pagine riportano la descrizione minuziosa, quasi maniacale, di come il ghiaccio stia imprigionando la nave in una pesante corazza bianca che rischia di mandare a picco il peschereccio. Perché il vero protagonista di questo racconto non è tanto il mare, quanto piuttosto il ghiaccio, un’entità maligna e dotata di vita propria che ricopre ogni centimetro della nave, e della quale è difficilissimo liberarsi. Non appena gli uomini dell’equipaggio a colpi di ascia, di mazza, di martello, di piccone riescono a staccarne un pezzo dalle sovrastrutture, ecco che altro se ne forma gelando le onde che investono la nave. È un ghiaccio “duro come il marmo”, persistente, che impegna gli uomini in un incessante lavoro di demolizione, mentre devono aggrapparsi a ogni cosa per non essere portati via dalle onde.

Kárason ripercorre poi la storia del Mafùr in un’alternanza di flash back e cronaca in presa diretta. Dalla partenza dal porto di Reykjavík, con il giovane e inesperto marinaio Lárus - suo, scopriremo poi, il punto di vista del narratore - che arriva all’imbarco accompagnato dai genitori e non sa ancora che sarà il protagonista di una lotta titanica con gli elementi dal valore inziatico, il racconto cala il lettore poco alla volta nel cuore della tempesta. Una burrasca che per tre giorni consecutivi metterà a dura prova i marinai, in un susseguirsi di fatiche che diventano quasi una routine contro il pericolo: i turni per uscire a rompere il ghiaccio, gli abiti fradici e gelidi, i cuochi che sfornano cibo a getto continuo per nutrire i marinai sfiniti, i momenti di disperazione quelli aperti alla speranza. E la battaglia contro il ghiaccio sarà perduta se non si prenderà la decisione di sacrificare alcune parti della stessa nave, a cominciare dalla scialuppe di salvataggio, che, appesantite dal ghiaccio, dovranno essere gettate a mare. Proprio le scialuppe, simbolo dell’ultima possibilità di salvezza, dovranno essere eliminate per poter dare ai marinai una speranza di salvezza.

È qui, nell’idea che a volte per salvarsi bisogna avere il coraggio di abbandonare ciò che rappresenta una possibile salvezza, il cuore pulsante del racconto di Kárason.

L’autore non alza mai i toni, non ricorre a metafore o iperboli. Si limita alla descrizione minuziosa di cosa succede quando si lotta in condizioni estreme contro un nemico imprevedibile. La resistenza, l’impegno ripetuto nonostante tutto, la fatica come routine, la consapevolezza della rinuncia: c’è qualcosa di molto attuale e di ormai molto familiare a tutti noi in questo stare appunto come “gabbiani nella tempesta”, soli e in balia del vento e dei marosi eppure decisi a non cedere. Ed è una sofferenza ampia e condivisa: “Più di duecento uomini morirono laggiù, nella zona in cui ci trovammo durante quel viaggio, metà dei quali nell’area del Banco dei laridi, mentre noi combattevamo contro il ghiaccio e contro la morte che tentava di trascinare anche noi giù, in fondo al mare”.



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