«Vi spiego perché l’uomo ha paura del mistero donna»

Oggi al Caffè San Marco di Trieste lo psicoanalista Francesco Stoppa presenta il libro “La costola perduta”
Si parla di donne al Caffè San Marco. Donne come idea, come figura umana esaminata nelle sue accezioni più profonde, da Freud a Winnicott, qualcosa che “disorienta” l’uomo e perciò vittima di una sorta di controllo visibile e invisibile, da parte dell’altro genere, quello maschile. A farlo sarà lo piscoanalista
Francesco Stoppa
, già autore di “La restituzione” (Feltrinelli) e ora in libreria con
“La costola perduta. Le risorse del femminile e la costruzione dell’umano” (Ed. Vita e Pensiero, pagg. 197, euro 16,00))
. L’incontro, oggi alle 18, si intitola “L’uomo, la donna, l’amore e la violenza” e sarà introdotto da Fabiana Martini, Ornella Luis e Fabio Fedrigo. La donna come un’anomalia dell’umano: in un’epoca segnata dalla quasi furiosa ricerca della parità e dell’uguaglianza tra donne e uomini, non è forse una formulazione eccessivamente rischiosa? «Non si tratta di “un’anomalia dell’umano” – dice Stoppa – nel senso che le donne avrebbero in sé un qualcosa di deviante o di difettoso che le porrebbe al di fuori di esso. Al contrario, il femminile è in un certo qual modo l’incarnazione del tratto anomalo che appartiene tout court alla condizione umana, dell’alterità di base che la caratterizza. An-omalos indica peraltro la posizione di chi, esente da perfezione, non teme di presentarsi nella sua particolarità. Io parlerei poi dell’importanza della parità dei sessi - nei termini di un problema, oggi finalmente molto sentito, sul piano dei diritti civili - ma non di un’uguaglianza sul piano dell’identità perché, come si sa, la differenza è un bene inestimabile, a partire appunto da quella tra l’uomo e la donna. Nel libro cerco proprio di dimostrare l’importanza decisiva del femminile nel farsi e mantenersi della civiltà e nei processi di umanizzazione del vivente».


L’importanza del femminile, pare avvenga da subito…


«Sì se consideriamo come una madre sia innanzitutto colei che parla al suo bambino, che ne riceve e raccoglie i primi segni sonori, colei che lo introduce non solo all’uso della parola e quindi alla sua cultura di appartenenza, ma anche a modalità evolute di contatto con la propria corporeità. La donna conserverà sempre, per l’uomo, questa prerogativa civile che ne fa una figura della vita ma soprattutto del pensiero, il pensiero critico, vigile e quando serve, dissidente. Non a caso per i greci proprio una figura femminile, Atena, era la dea della saggezza e delle arti, nonché la protettrice delle leggi».


Già nell’introduzione c’è un gioco di parole, «la donnazione» ci annuncia una serie di ambiguità o di paradossi del femminile: quali sono i più significativi?


«La donnazione è un neologismo col quale ho voluto rievocare come, fin dalla Genesi, la donna rappresenti un danno – distrae Adamo dalla sua spensierata autoreferenzialità – danno che si rivelerà però essere un dono. Ma il più grande paradosso della posizione femminile ha a che vedere con quella che è la sua prerogativa umana e civile per eccellenza: lei – come spiega la psicoanalisi – è il paradigma della singolarità e dell’alterità, non appartiene infatti all’insieme fallico, non fa gruppo, massa. Proprio per questo le riesce meglio, e più naturalmente del suo più omologato partner, esercitare una funzione di vigilanza e, come detto, di sana dissidenza su quello che è l’ordine dominante. Lei lo sa provocare, scuotere, all’occorrenza commuovere. In ogni caso – si tratti del rapporto di coppia o del legame sociale – lo costringe a interrogarsi».


A un certo punto del libro lei sostiene che una donna può essere indotta «a cercare nella violenza subita il marchio di un’appartenenza (appartenere a qualcuno piuttosto che al nulla)»: non potrebbe essere, questo, un pericoloso alibi per chi esercita violenza sulle donne?


«Per la bambina il processo di individuazione, in sostanza di separazione dalla madre, è un percorso più delicato e accidentato che per il maschietto, per il quale la cosa è facilitata dalla naturale diversità del suo corpo da quello materno. Spesso le donne che non riescono a dire basta all’arroganza maschile risentono di un’intrinseca difficoltà nell’assunzione della femminilità».


Cioè?


«È come se non potessero autorizzarsi da sé ad essere pienamente donne e dovessero cercare conferme all’esterno. Per esempio nel caso dell’isteria grazie all’identificazione con un’immagine di donna reputata più riuscita di sé. O nel caso della donna abusata illudendosi di trovare nel dolore inflittole da un uomo la consistenza di un corpo altrimenti a rischio di anonimato. Ma il deficit identitario di cui quest’ultima soffre non è da addebitarsi solo a un difetto nella relazione madre/figlia, perché sullo sfondo c’è da supporre la carenza di un genitore maschio che abbia saputo essere “il padre dell’amore”, capace di nutrire curiosità e tenerezza per il corpo della bambina».


Freud parla del tratto traumatico del femminile per l’uomo: in cosa consiste?


«Che l’uomo teme la donna, la giudica “eternamente incomprensibile e misteriosa”. Soprattutto ha paura di essere contaminato dalla sua femminilità. Per capirlo, bisogna considerare come la differenza che la donna porta in dote non sia un ordine di cose che aiuta l’uomo, per opposizione, a definirsi meglio, ma qualcosa che lo confonde e disorienta».


Forse per quel “vuoto” che la donna rappresenta sessualmente, come diceva Lacan?


«Quello femminile non è un sesso alternativo al sesso maschile, come sostiene Lacan appunto, un “non sesso”, rappresenta in sé quella dimensione dell’umano che non ha nome o forma, un’incognita che abita in ognuno di noi e che confina con l’inconoscibile e il non padroneggiabile. Da sempre l’ordine maschile ghettizza certe espressioni del femminile (in primis il ciclo mestruale) che hanno a che vedere con l’esplicarsi con un di più, un troppo di vita davanti alla quale ogni forma di potere nutre un sentimento di orrore».


Qual è la funzione della donna, o meglio del femminile, nell’ambito dei legami sociali?


«C’è una portata sociale nell’esigenza femminile dell’amore, la donna – spesso in questo inascoltata – chiede infatti di legarsi all’uomo in un’esperienza di parola, chiede che le si parli oltre che la si ascolti. Ma più in generale il femminile, come sostengo nella parte conclusiva del libro, ha in sé le stesse caratteristiche di apertura all’inatteso, di interesse per l’alterità, di vivacità che sono proprie della comunità. L’identità di entrambe – il femminile e la comunità – risentono del fatto di essere più come un cantiere aperto che come un fatto compiuto una volta per tutte. Ma questa è la ricchezza dell’umano, nonché la ricetta che può oggi aiutarci a contrastare i processi di necrosi del nostro mondo».


Il discorso psicoanalitico, da Freud a Lacan, a Klein dà talora l’impressione di poter fornire una lettura della realtà nel suo complesso. Non c’è forse un rischio di eccessiva semplificazione in questo atteggiamento?


«Il rischio, lo riconosco, c’è sempre. C’è d’altronde in ogni formalizzazione teorica di tipo speculativo, soprattutto se riferita al campo umano. Così come, oltre al rischio di semplificazione, ne esiste uno relativo a un’eccessiva sistematizzazione del pensiero, come se si potessero applicare delle formule teoriche perfino alle persone. Ancora una volta, anche in questi casi, saper assumere una posizione femminile – quindi non così intimorita dalle cose della vita al punto di volerle incasellare – è una garanzia».


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