«Virgilio Giotti il mio nonno poeta e costruttore di pipe»

La nipote “Rina”, Vittorina Quarantotto Vianello ricorda lo scrittore triestino a sessant’anni dalla morte  
«Ela, che la vol che mi vivo» aveva 7 anni quando il nonno le dedicò la poesia "Con Rina". Era il 1943. Oggi Vittorina Quarantotto Vianello, nipote di Virgilio Giotti, è una vispa ottantenne. E con la stessa dedizione di allora ricorda il nonno poeta, di cui ricorrono 60 anni dalla morte, il 21 settembre 1957, neppure un mese dopo la scomparsa dell'amico Umberto Saba. Rina li ricorda entrambi come fossero vivi.


Che tipo era Saba?


«Quando l'ho conosciuto, nel 1950 - racconta la signora Rina, - stava già male e sua moglie Lina peggio. Saba era nevrastenico, stanco, depresso. Si lasciava andare, non si curava neppure della sua igiene personale. Girava per casa con una lunga calza in testa, sciatto, mezzo sporco, la sua camera puzzava tanto che quando sua figlia Linuccia veniva a trovarlo da Roma con Carlo Levi (l'autore di "Cristo si è fermato a Eboli" ebbe una trentennale relazione con la figlia di Saba;
ndr
), si premuravano di tenerla ben chiusa, tappando la porta con panni e stracci, perché non trapelasse l'odore sgradevole e pungente di urina. A Saba non importava nulla: con la sua lunga calza pendente in testa, scamiciato, ciabattava fino in salotto per un rapido saluto e tornava a rinchiudersi nella sua stanza. Salvo inveirci contro quando ci accaloravamo giocando a carte, a canasta ma anche con i tarocchi di Maria Lupieri».


Rapporti non facili...


«Vivevamo in casa loro, - in via Crispi 56 angolo via Piccolomini: io con mia mamma Tanda al piano di sopra, il poeta con Lina in quello di sotto. Negli ultimi anni ho seguito sia Giotti che Saba. Sono forse l'unica che li conosca bene di quel periodo. Ma certe robe
no' vojo dirle
. Dicono che la loro lunga amicizia negli ultimi anni si sia incrinata. Ma non è così. Saba si era chiuso nel proprio guscio di disgrazie e dolori. Mio nonno, invece, nonostante la preoccupazione per la moglie Nina malata di epilessia, le disgrazie e i lutti (i figli dispersi, morti in Russia), la miseria dignitosamente vissuta, continuò a frequentare i vecchi amici come Biagio Marin (che lo considerava un "santo"), Giani Stuparich, Bobi Bazlen, i mecenati Dolfi e Malabotta, il pittore Federico Righi, lo scultore Doplicher...».


E Saba?


«
Mi no go mai visto tuto 'sto astio che i disi!
Erano tipi diversi. A mio nonno davano fastidio i piagnistei continui di Saba. Ma solo una volta lo vidi perdere la pazienza: erano andati all'ospedale a trovare Guido Voghera, il papà di Giorgio, che stava molto male (ma seppellì entrambi, morendo nel '59). Mentre Giotti era nella stanza e parlava sottovoce con Guido, entrò Saba e cominciò il suo rosario di lamentele. Giotti lo zittì con un'occhiataccia, poi lo spinse fuori a male parole».


Com'era la casa di Giotti in via La Marmora?


«Era un ambiente lindo, pulitissimo. C'erano tre stanze oltre al bagno: la camera di Giotti, uno stanzino dove il nonno teneva la scorta di legna e carbone, e il salotto dove si viveva e c'era il lettuccio della nonna Nina, che soffriva di epilessia e non si poteva lasciare mai sola. C'era anche una grande cucina, ma si usava solo in primavera-estate, perché altrimenti era gelida. Faceva così freddo che Giotti si vestiva di tutto punto - sciarpa, basco e cappotto - per andare a cucinare. Aveva anche un balconcino, dove d'estate si prendeva il fresco, e una grande finestra, che però d'inverno il nonno murava».


Vuol dire che tappava gli spifferi con giornali o coperte?


«
No no, el meteva proprio malta!
Altrimenti entrava il gelo. La bora fischiava e c'era un freddo da morire. Per questo stavamo tutti nel salotto dove c'era una stufa che scaldava bene. E ogni primavera Giotti rimuoveva la malta. Quando la nonna rimase vedova, mamma Tanda e io andammo ad abitare con lei. La nonna mi raccontò le stesse fiabe russe che aveva narrato ai figli Paolo e Franco. La mia preferita era "Il pesciolino d'oro" di Puškin. Poi mi parlava della sua terra, della vita in Russia prima della Rivoluzione, che spazzò via la sua famiglia».


Che ricordo ha di suo nonno?


«Per me lui era tutto. Qualsiasi problema avessi, andavo da lui. Aveva il dono di saper ascoltare. In casa parlava sempre in italiano più che in dialetto. Ma in triestino scriveva le sue poesie. Mio nonno oltre che poeta e bravo artigiano (gli piaceva lavorare il legno, costruirsi le sue pipe strette e lunghe e le matite) e disegnatore, era anche un bravo cuoco, famoso per il suo eccezionale risotto con le verdure, il pomodoro, le zucchine, le cipolle, anche con delle salsiccette. Lo portava in tavola in una enorme terrina, da cui tutti si servivano. La ricetta non l'ha mai rivelata a nessuno».


Le raccontava storie?


«Lui no, mai! Mi leggeva solo poesia e letteratura: molto Leopardi, un po' di Carducci, ma soprattutto i classici tedeschi (Goethe, Rilke...) in tedesco. Nel 1954 o '55 mi lesse i libretti del "Tristano e Isotta", prima di portarmi al Teatro Verdi, posti di galleria, a vedere l'opera di Wagner. Insomma mi leggeva i libri della piccola libreria che si era costruito da solo e si può vedere nel Centro Studi di via degli Stella. Fiabe no. E non mi ha mai raccontato nulla neppure dei suoi ricordi famigliari. Troppo amari e dolorosi per condividerli con me bambina».


La portava a spasso?


«Oh sì, mi portava spesso con sé. Sempre a piedi. Ma soprattutto andavamo ogni domenica da Emilio Dolfi, benestante, futurista e mecenate, grande amico del nonno, nella sua villa in via Redi. Puntuali prima delle cinque del pomeriggio, per ascoltare il concerto alla radio (che noi non avevamo). Dolfi ci offriva te e dolcetti. E insisteva che Giotti cogliesse i fiori del suo giardino ("
Ciòlteli pur! Pòrtigheli a Nina che ghe piasi!
"), che a casa metteva in una grande brocca bianca, a centro tavola. Poi, in primavera, stretti stretti in una Topolino, Dolfi ci portava in Carso, dove il nonno liberava gli uccellini che allevava in casa.
Iera belissimo vederli svolar via!
".


Quali colori piacevano a Giotti?


«Non quelli forti. I colori tenui della natura. Tra i fiori, adorava le rose e i tulipani. Poi gli piacevano tutti i colori della frutta - mele, arance, susine - con cui componeva bellissimi piatti»


Un regalo che le ha fatto?


«Una volta mi ha costruito con le sue mani una bambolina, che ho ancora, una pupa con una testolina di porcellana, regalatagli da un amico reduce dalla Cina. I vestitini glieli aveva cuciti la bisnonna Emilia e, anni dopo, mia mamma, che era sarta, le aggiunse una traversina con un pezzo di stoffa avanzata. Quella pupa si chiamava Rosatèa, come una tra le rose più affascinanti. E poi con il nonno ogni anno andavo a fare piccoli viaggi.»


Dove?


«Andavamo a Venezia, a Ravenna, a Ferrara... Spoleto è stato il posto più lontano. A Venezia il nonno andava a trovare gli amici: le scultrici Bernt, goriziane, l'artista Guido Cadorìn, che insegnava all'Accademia, lo scrittore Quarantotti Gambini... A Firenze e in Toscana, invece, non volle mai portarmi. Troppi ricordi tristi. C'erano morte due delle sue tre giovani sorelle e anche il padre Riccardo. L'anno in cui è morto, aveva progettato di portarmi in Olanda a vedere i suoi pittori preferiti: Vermeer, Rubens, Rembrandt. Aveva già preparato l'itinerario: in treno fino a Basilea e in vaporetto su per il Reno fino ad Amsterdam.
Inveze 'l xe morto. E no semo più andài
».


La signora Rina mostra una foto di lei in braccio al nonno. E ripensa ai versi che le regalò nel lontano 1943: «Rina/ mi sentivo ciamarme/ co' la su' vosetina/ de picia dona. Ela,/ che la vol che mi vivo,/ la me ciamava via/ de quel logo». Indimenticabile Giotti.


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