«Io, unico ostetrico del mio corso: volevo aiutare in un luogo felice»

Davide Mascarello lavora come ostetrico a Vicenza. Racconta la sua scelta in controtendenza: «Da piccolo giocavo al nido ospedaliero con mia sorella»

Costanza Francesconi
Davide Mascarello, 30 anni, di Carmignano di Brenta
Davide Mascarello, 30 anni, di Carmignano di Brenta

Rincorre la vita, come il pallone. Dallo spogliatoio tutto maschile della sua squadra di calcio, al reparto di Ostetricia – «vera isola felice dell’ospedale» – dov’è beato fra le donne.

Davide Mascarello, 30 anni di Carmignano di Brenta, era l’unico ragazzo del suo corso di laurea in Ostetricia al Bo. E tale è rimasto arrivato all’ospedale San Bortolo di Vicenza, dove lavora da sette anni.

Con una media di due iscritti maschi per anno, fino agli ultimi tre di Ostetricia a Padova, corre l’obbligo di chiederle: come mai questa scelta in controtendenza?

«Perché no? Uscito dal liceo scientifico ero saturo. Volevo avvicinarmi all’ambito sanitario ma l’idea Medicina mi spaventava per la lunghezza e mole di nozioni. Con mamma nel personale amministrativo all’ospedale di Cittadella, ho trascorso interi pomeriggi nell’area giochi del nido ospedaliero assieme a mia sorella. E quando lei ha cominciato Infermieristica, mi sono appassionato ai suoi libri, alle sue dispense».

E perché non ha tentato Infermieristica, anche lei?

«La vedevo tornare a casa distrutta per la morte di pazienti a cui si era affezionata dopo mesi di lungo degenza. Desideravo aiutare il prossimo ma volevo farlo nell’unica isola felice dell’ospedale, il reparto di ostetricia. Ero incuriosito da come la gravidanza sconvolge completamente il corpo di una donna, volevo capire cosa succede prima, durante e dopo il parto, andando oltre i tabù. Al test ho indicato il corso come prima scelta e sono entrato subito. Di dodici ero l’unico maschio».

Sorpreso?

«Me l’aspettavo. Informandomi sulla professione, storicamente legata alla figura della levatrice, sapevo sarei stato una mosca bianca ma le compagne mi hanno subito fatto sentire accettato, e anche l’ospedale, fin dal tirocinio del primo anno».

E dalle pazienti, ha mai riscontrato resistenze?

«Dacché lavoro è successo solo che una donna e due mariti appartenenti a coppie musulmane, per motivi religiosi hanno chiesto che potesse esserci personale femminile. Per il resto, nessuna barriera».

Crede che lo stupore per un ostetrico sia percepito più all’esterno che dentro il reparto?

«Nella mia esperienza la professionalità supera l’essere uomo o donna. Quando una persona ha bisogno di una guida si affida all’essere umano che sa condurla. E questo è tipico dell’ostetrico e dell’ostetrica».

Cosa intende dire?

«Noi non curiamo le persone, ci prendiamo cura di loro. Per la maggior parte le nostre pazienti sono sane. In sala parto si condivide la gioia di una famiglia che nasce, una fortuna grandissima che crea e presume un rapporto di fiducia totale».

Qual è stata la sua emozione più grande?

«L’aver assistito in prima persona alla nascita di due dei miei nipotini. Ma posso dire che in questo mestiere sai che incontrerai sempre emozioni positive. Perciò, almeno per me, non è mai un peso montare in turno».

Seppur con un’incidenza in Italia oggi minima, il parto è ancora causa di morte?

«Questa è l’altra faccia dalla medaglia. Il nostro obiettivo è che madre e figlio siano in salute e che il parto sia all’altezza delle aspettative di lei. È raro, ma ci sono bimbi che muoiono in utero. Un carico immenso per le mamme e i papà ma anche per noi operatori».

Lei vi ha mai assistito?

«Ricordo un episodio, quando una madre di due gemelli a termine gravidanza è corsa in Pronto Soccorso perché sentiva muovere poco uno dei due. Ho seguito questa coppia nel travaglio, spezzata perché la piccola non ce l’aveva fatta. Riportare testa ed energie della mamma a quello che c’era di buono, al gemello vivo, a un’altra vita che stava arrivando… Se ci ripenso mi viene ancora la pelle d’oca».

Oggi è la giornata internazionale dell’aborto sicuro: che opinione ha a riguardo?

«Sono del tutto favorevole alla pratica dell’aborto volontario sicuro – diritto insindacabile della donna – svolto, cioè, in strutture capaci di gestire questo aspetto assistenziale. Allo stesso tempo credo debba essere fatta una profonda educazione sul suo significato, da non intendere come metodo contraccettivo alternativo: per questo vanno aumentate le giornate di educazione sessuale nelle scuole, per promuovere un utilizzo più consapevole e informato della contraccezione sicura».

Familiari e conoscenti si sono abituati al suo lavoro?

«A casa direi di sì. Dopodiché gioco a calcio, in uno spogliatoio di soli ragazzi. Le battute scherzose non mancano ma non sono mai state giudicanti. D’altra parte, la mia, la nostra, è una missione».

Trova ci sia un paradigma da scardinare?

«In parte. Per questo incito i ragazzi che sentono propria la volontà di intraprendere questo percorso a farlo senza paura dei pregiudizi, con tutta la passione e l’empatia possibile».

Scelga un motivo.

«Perché le gioie e le soddisfazioni che regala questo lavoro sono un dono impagabile, che viene riconosciuto indipendentemente dal genere a cui si appartiene». 

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