Overtourism, se il troppo si trasforma in danno

In un’estate infuocata dal caldo e dalle tensioni internazionali, ci siamo trovati quest’anno a fare i conti anche con un fenomeno paradossale: l’eccesso di turismo. Un fenomeno non certo nuovo, in particolare a Venezia, città nella quale il rapporto tra turisti e residenti viaggia oltre quota 70: una “capacità di carico” difficilmente sopportabile da qualsiasi altro territorio.
La novità, se vogliamo, è che l’affollamento turistico, complice la forte ripresa dei viaggi dopo il periodo pandemico, ma anche del rafforzamento del dollaro, si è diffuso in diverse località, sia in Italia che in altri Paesi europei, soprattutto nell’area mediterranea.
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Al cosiddetto overtourism ha dedicato attenzione anche il settimanale The Economist, rilevando come non si tratti tanto di un classico “fallimento del mercato” – situazione nella quale l’equilibrio tra domanda e offerta genera una inefficiente allocazione delle risorse – quanto piuttosto di una cattiva regolazione, che fatica a scalfire le rendite connaturate al valore insostituibile di alcuni luoghi (una vista a Venezia oppure alle Tre Cime di Lavaredo o ancora al lago di Sorapis, per citare un esempio dell’attualità più vicina, non è facilmente rimpiazzabile con altri viaggi), ma anche di una visone limitata dei benefici che un turismo di qualità, meglio distribuito e più integrato può portare all’economia di un territorio.
Troppo turismo può far male, innanzitutto, al turismo stesso, banalizzando l’esperienza della visita e riducendo, di conseguenza, la disponibilità a spendere sul luogo in servizi di qualità. Una domanda poco qualificata crea a sua volta un’offerta predatoria, alimentando un ciclo vizioso che diventa difficile disinnescare.
Un eccesso di turismo entra inoltre in conflitto con altri settori dell’economia locale, che vengono spiazzati dai maggiori costi immobiliari e degli altri servizi, oltre che dalla concorrenza sul mercato del lavoro. Diminuisce così anche il moltiplicatore economico del turismo, in quanto vengono a mancare sul territorio le filiere produttive per servire anche i consumi dei visitatori.
Questo processo riduce la diversificazione dell’economia locale, elemento chiave per uno sviluppo più resiliente e basato sull’innovazione. Del resto, molti lavori che il turismo richiede sono a bassa produttività e riescono perciò a garantire solo redditi modesti. Allo stesso tempo, però, la domanda turistica crea una pressione sui prezzi – basti pensare all’effetto sui costi della casa e dei trasporti – abbassando il potere d’acquisto dei residenti.
Da qui il conflitto esploso in diverse città e anche in alcune località montane contro il turismo di massa, che rischia di degenerare a danno di tutti.
Come uscire da questa situazione? Innanzitutto, non nascondendo il problema e iniziando a porre limiti seri alle visite nelle località più affollate. Giusto dunque far pagare un prezzo di congestione agli ingressi (differenziato in base ai giorni e, perché no, alla categoria dei visitatori, premiando studenti e disoccupati), ma anche imponendo regole più severe sugli affitti brevi.
Il punto è che il turismo, come ogni industria, ha le sue catene del valore, e dobbiamo cercare di sviluppare sul territorio le funzioni che creano più valore aggiunto e sostengono l’innovazione. Offrire l’affitto di una stanza su una piattaforma porta certo benefici al proprietario, ma molti di più a chi gestisce e sviluppa la tecnologia della piattaforma, spesso localizzato in un remoto distretto dell’innovazione dove il turismo è solo uno dei tanti settori che arricchiscono l’economia.
Ragionare in termini di catene del valore e di capacità di innovazione dovrebbe aiutare una politica industriale del turismo, a beneficio degli operatori e dell’economia locale.
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