Smart working: l’antropologo Niola individua rischi e opportunità

«È una vera mutazione. Serve un nuovo equilibrio tra isolamento e socialità»

Elisa Coloni
Marino Niola professore, antropologo e divulgatore scientifico
Marino Niola professore, antropologo e divulgatore scientifico

TRIESTE Lo smart working come elemento di una «mutazione spazio-temporale» che sta interessando la nostra società.

Una società alla ricerca di nuovi equilibri, in cui le persone da una parte rischiano, se troppo isolate in casa, «di non avere più un posto di lavoro, ma solo un lavoro senza posto» e dall’altra, se private di flessibilità, di non riuscire mai a «rigenerarsi, recuperando i propri tempi, che non sono più solo i tempi dell’azienda».

Smart working da Allianz a Generali: ecco come il lavoro ha cambiato forma
Lo smart working nelle grandi realtà del Fvg resiste e viene confermato nel 2024. Lo fanno big delle assicurazioni come Allianz e Generali (a destra Palazzo Berlam illuminato) e lo fa Fincantieri, che dallo scorso settembre ha deciso di rendere strutturale il lavoro agile per gli uffici: a sinistra il Palazzo della Marineria. Nella foto in alto a sinistra, Unicredit a Milano.

Il passaggio è complesso e va gestito «trovando una mediazione». Ne è convinto Marino Niola, antropologo, giornalista e divulgatore scientifico, docente a Napoli e, in passato, pure a Padova e Trieste.

Professore, come cambierà il modo di lavorare?

«Se si osserva lo smart working dal solo punto di vista individuale del lavoratore, lo si può vedere come un risparmio di tempo. Per le aziende come un risparmio di costi. Ma la prospettiva cambia se guardiamo il fenomeno dal punto di vista collettivo, di sistema, di società: siamo davanti non a un semplice cambiamento, ma a una vera e propria mutazione, molto interessante, che agisce sia sullo spazio che sul tempo».

Ce la spieghi.

«La nostra civiltà, che funziona per accelerazione, ha sempre cercato di economizzare la spazio e trasformarlo in opportunità di guadagno; si pensi a come lo sfruttamento verticale dello spazio, con i grattacieli, nel Novecento ha modificato non solo il modo di costruire e di vivere, ma anche la nostra estetica. Oggi ci troviamo in un altro frangente».

Quale?

«Agiamo non più solo sullo spazio, ma anche sul tempo: cerchiamo di trasformare continuamente il tempo in spazio e lo spazio in tempo, che è ciò che succede con lo smart working. La nostra è l’epoca della condivisione, della sharing economy, dove tutto si fraziona e condivide nello stesso tempo. Se ci si pensa, è insieme una moltiplicazione e una divisione. Con il lavoro da remoto ci troviamo davanti a una nuova estensione dello spazio, che è una dimensione temporalizzata, perché la connessione è questo: è un continuum spazio-temporale. E il fatto che la mia scrivania possa essere usata da più persone con una turnazione vuol dire che quello spazio è temporalizzato».

Come si traduce tutto ciò nella vita di ogni giorno?

«In un aumento dell’isolamento e nella perdita di alcuni rituali. Penso alle riunioni, che in alcune circostanze rappresentano un passaggio fondamentale della giornata di lavoro, e che oggi spesso si fanno in video: non è la stessa cosa. Prepararsi un caffè in cucina a casa, terminata la riunione, non è come alzarsi dal tavolo e bersi un caffè con i colleghi, continuando a scambiare idee. In una certa misura ne risente la creatività, che è un fatto di scambio, anche di corpi, perché i nostri doppi elettronici non sono i nostri corpi. I processi del lavoro potrebbero risentire di questo cambiamento, almeno all’inizio».

Quindi lo smart working è da bocciare?

«No, non sto dicendo questo. Dico che serve equilibrio, perché la nostra è una società in mutazione e, come tale, ha bisogno di trovare nuovi equilibri. È necessario mediare tra le due istanze. Anche perché il lavoro non è isolamento, ma nemmeno deportazione collettiva. Implica creatività, libertà fisica e mentale. E lo smart working, laddove la mansione lo consente, dà una libertà maggiore alle persone di rigenerarsi e, alle imprese, di poter contare su forza lavoro rigenerata».

In che modo?

«Se come lavoratore riesco a recuperare almeno in parte i miei tempi, che non sono più solo i tempi dell’azienda, rischio meno di cadere in quello che un tempo si chiamava processo di alienazione, e posso rientrare in me stesso. Ancora una volta, però, serve equilibrio, perché se sto sempre solo in me stesso viene a mancare il confronto, la creatività, la relazione. E gli umani sono fatti di relazione, non sono intelligenze artificiali. Anzi, questo nome bisognerebbe proprio cambiarlo...».

Per quale ragione?

«Perché intelligenza è un nome che abbiamo dato a una facoltà umana dopo millenni di approfondimento, anche etimologico. Applicarlo alle macchine è sbagliato: loro processano una grande quantità di dati a un’incredibile velocità. Questo fanno. L’intelligenza umana non è fatta solo di capacità logica di processare, ma anche di emozioni e sensibilità, che la macchine non hanno».

Lei che nome userebbe?

«Li chiamerei per quello che sono: processori».

Tornando al tema del posto di lavoro, si potrebbe andare sempre più verso l’addio alla scrivania fissa, sostituita da postazioni libere, da occupare a rotazione…

«Torniamo ancora una volta alla metafora spaziale. Tradizionalmente la scrivania è vissuta come un vero e proprio posto, un luogo, uno spazio fisico. Adesso potrebbe venire meno persino il concetto stesso di posto di lavoro: c’è il lavoro ma senza posto, delocalizzato. Se adottassimo uno smart working totale il rischio sarebbe quello di restare senza luogo. Ancora una volta, serve equilibrio».

La flessibilità chiesta dai lavoratori, che oggi le aziende non possono non offrire se vogliono essere competitive, era prevedibile?

«Non del tutto, anche se qualche segnale c’era già. Dicevamo da anni di dover rallentare tutti, ma non lo facevamo. La pandemia ci ha fermati: non ce l’avremmo mai fatta da soli. Ci ha fatto ripensare al valore del tempo, che mi sembra una forma di valutazione intelligente». —

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