Fine vita, il Friuli Venezia Giulia dice no alla legge sul suicidio assistito

La Terza Commissione del Consiglio regionale, competente in materia di Sanità, ha bocciato la proposta di legge di iniziativa popolare “Liberi subito” dell’associazione Luca Coscioni

Francesco Codagnone
Il sit in davanti al Consiglio regionale (Lasorte)
Il sit in davanti al Consiglio regionale (Lasorte)

TRIESTE Nell’ultimo anno il dibattito ha superato i confini della politica attraverso le storie dei malati come Anna, triestina di 55 anni affetta da sclerosi multipla, la cui volontà di porre fine alle proprie sofferenze si è scontrata con una burocrazia che ne ha prolungato il dolore. Ma, alla fine, il Friuli Venezia Giulia ha detto no a una regolamentazione propria sul suicidio medicalmente assistito.

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La bocciatura

La Terza commissione del Consiglio regionale ha bloccato la proposta di legge di iniziativa popolare “Liberi Subito” dell’associazione Luca Coscioni su «procedure e tempi certi» nell’applicazione della sentenza 242 del 2019 della Corte costituzionale. L’esame del testo sostenuto dalle firme di oltre ottomila cittadini non passa nessuno dei sei articoli della norma, affossata dal voto di un centrodestra vicino alle posizioni del governatore Massimiliano Fedriga, scettico sulla possibilità che sia la Regione a decidere in un ambito così «complesso», laddove il tema fatica a farsi strada finanche in Parlamento nonostante il richiamo del presidente della Consulta Augusto Barbera. Non sta dunque al Consiglio regionale «arrogarsi il diritto di legiferare sul fine vita», ha ribadito l’assessore alla Salute Riccardo Riccardi al termine di tre ore di acceso dibattito.

La sentenza Cappato

Fino all’ultimo l’opposizione ha tentato di convincere della necessità di una norma regionale che evitasse a malati come Laura Santi in Umbria di rimanere in balia di tempistiche arbitrarie. In Italia il suicidio assistito non costituisce reato per la sentenza “Cappato-Antoniani” del 2019, nata dalla lotta “Dj Fabo” e che disegna i criteri per accedere al fine vita: la persona deve essere affetta da una patologia senza cura, che le provoca sofferenze fisiche o psicologiche intollerabili; deve essere capace di autodeterminarsi e dipendere da strumenti di sostegno vitale. Proprio su quest’ultimo punto il Friuli Venezia Giulia aveva scritto una nuova pagina, interpretando tale anche l’assistenza continuativa da parte di terzi, nel caso della 55enne Anna (nome di fantasia), di familiari e badanti.

La lunga battaglia

Il verdetto era arrivato al termine di una lunga battaglia iniziata davanti al Tribunale di Trieste lo scorso giugno con la lettura, da parte dell’avvocata Filomena Gallo, delle parole affidatele dalla sua assistita: «Desidero poter essere libera di scegliere quando potrò morire», scriveva Anna. Ma in assenza di una norma nazionale non sono definiti tempi e modalità per accedere alla procedura e capita così che i malati aspettino anche anni per una risposta. Così è accaduto a Federico Carboni nelle Marche, il primo in Italia a morire con il suicidio assistito ma dopo due anni di battaglie. A tutto questo la proposta di legge affossata ieri tentava di trovare rimedio, fissando un limite di 20 giorni perché le Asl procedano alle verifiche delle condizioni di salute del malato che ne fa richiesta. Nel caso di Anna, affetta da sclerosi multipla dal 2010, è stata però necessaria una condanna del Tribunale contro Asugi e un anno trascorso «immobile in un tempo che non passa mai» prima che il 28 novembre scorso la donna potesse infine diventare la terza persona in Italia a morire con il suicidio assistito e la prima a farlo con il completo sostegno del Ssn. A differenza di “Gloria” in Veneto, paziente oncologica che lo scorso luglio morì ma vegliata dal proprio medico di fiducia, Mario Riccio, lo stesso di Piergiorgio Welby. Anche su questo la sentenza “Cappato-Antoniani” lascia la partita al caso sicché “Liberi subito” chiedeva anche di normare la parte assistenziale.

Le opposizioni

«Dobbiamo dare risposte univoche a chi si trova nelle condizioni di estrema sofferenza», è stato l’appello di Enrico Bullian (Patto-Civica), già firmatario di una mozione sul fine vita affossata in novembre dopo lunghe audizioni che hanno dato voce ad associazioni pro-vita, costituzionalisti e al dottor Amato De Monte, medico di Eluana Englaro. Anche allora la discussione si era annodata sul dubbio se intervenire o meno a livello regionale su una sentenza mai recepita neanche dal Parlamento, dato atto delle perplessità della stessa Avvocatura di Stato. «Legiferare su questi temi significa intervenire su titolarità ed esercizio dei diritti fondamentali, di competenza esclusiva dello Stato», sostiene il forzista Andrea Cabibbo, poi ribattuto dal dem Roberto Cosolini che ha precisato come «si tratta in realtà di garantire a chi soffre un diritto già riconosciuto».

Al di là dei posizionamenti – con Furio Honsell (Open) che si appella al «diritto di autodeterminazione» e il meloniano Claudio Giacomelli che teme possibili «discriminazioni tra malati» – pochi altri temi come questo hanno saputo interrogare le sensibilità personali, aprendo a pronunciamenti favorevoli in diversi Comuni (tra cui Gorizia e Cormons, amministrati dal centrodestra) e dividendo altri Consigli regionali in tutta Italia. È il caso del Veneto, dove a tradire la volontà di Luca Zaia è stata la sua stessa maggioranza ma a bloccare la legge sul fine vita è stata a sorpresa la dem Anna Maria Bigon, o della Liguria, con il presidente Giovanni Toti espressosi a favore.

Cure palliative

Il dibattito è comunque servito a rilanciare la necessità delle cure palliative, come indicato in una mozione dello stesso presidente di Commissione Carlo Bolzonello, forse raccogliendo il monito dei vescovi del Triveneto. Ma, alla fine, ha vinto il no, nonostante quelle ottomila firme depositate lo scorso agosto dai cittadini fino a ieri tornati in piazza Oberdan con uno striscione: «Liberi mai». Il centrosinistra promette di riportare la discussione in Aula, l’associazione Coscioni con la referente locale Raffaella Barbieri che «continueremo con la disobbedienza civile». Perché fuori dall’aula restano le storie senza risposta di quei malati che cercano una fine alle proprie sofferenze. Resta la lotta di Stefano Gheller perché altri come lui possano essere «liberi subito» quando e se lo vorranno. Il calvario di Sibilla Barbieri, affetta da tumore irreversibile, alla fine accompagnata dal figlio Vittorio a morire in Svizzera. E resta quell’ultima lettera di Anna, dettata con voce flebile poco prima di assumere il farmaco letale che l’ha resa «finalmente libera». —

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