La lettera di Martina Oppelli: «Urlo per poter dire basta, ma c’è chi si ostina a non ascoltare»

La donna triestina cui è stato rifiutato finora l’accesso al suicidio assistito: «Incito chi scopre di essere malato a non arrendersi alle difficoltà. Lo Stato agisca»

Martina Oppelli
Martina Oppelli
Martina Oppelli

Martina Oppelli, cinquantenne triestina affetta da oltre vent’anni da sclerosi multipla, a inizio luglio, presentata opposizione al terzo diniego di Asugi all’accesso al suicidio assistito, aveva affermato: «Valuto di andare in Svizzera». Oppelli ha scelto, tramite l’Associazione Coscioni, di inviare un testo al Piccolo, in risposta a una lettera uscita lunedì in cui l’ex consigliere comunale Salvatore Porro la invitava «ad accompagnarci in un pellegrinaggio a Medjugorje», «dove molti hanno ritrovato speranza, pace e conforto. Lì, nella semplicità della preghiera e nella fraternità tra anime ferite, si sono riaccesi sorrisi che sembravano perduti».

Gentile Dottor Porro, stimolata dal bellissimo titolo della sua lettera, “Martina, cammina con noi”, ho chiesto di leggermela subito (purtroppo i danni ai nervi ottici dovuti alla sclerosi sono sempre più pesanti). Ancora una volta. No, non basta, per piacere, leggetela ancora.

Niente. Mi sforzo di sentire dentro di me la stessa compassione che provo quando i miei Amici si offrono per aiutarmi sopperendo alle ferie delle badanti (la malattia non va mai in vacanza, le badanti invece sì), ma non la ritrovo. Non c’è. Provo, dunque, almeno a capire se mi venga offerto un viaggio spesato e organizzato nel minimo dettaglio per evitarmi ulteriori sofferenze fisiche. Ormai anche raggiungere l’ospedale di Cattinara è una tortura, nelle vetture tutti i dolori vengono shakerati in un unico, immenso dolore univoco.

Se mi viene offerta un pellegrinaggio, spero sia meno faticoso dei due viaggi a Lourdes che ho affrontato nel 2013 e poi, chissà perché, anche nel 2014. La 2ª volta ho dovuto pagare il viaggio alla badante e pagare la badante stessa affinché mi assistesse. Gli spasmi, simili a scosse elettriche, irrigidivano il corpo tanto da far paura ai normali, ai pellegrini sani o quasi. Non c’è nemmeno questo. Non è chiaro se a Medjugorje ci andreste da soli portando me nel cuore e nelle vostre preghiere, oppure proprio me, concretamente.

Mi viene in mente lo splendido libro di Adolf Loos “Ins Leere gesprochen”, Parole nel vuoto, benché l’autore descrivesse in esso la propria visione radicale dell’architettura, riesco a cogliere anche la delusione che il proprio pensiero si perda su terreni aridi. Parole nel vuoto mi sembrano anche quelle che ho espresso con lucidità, serenità e consapevolezza già più di due anni fa, rivolte ai rappresentanti dello Stato che si dice laico e che dovrebbe tutelare il libero arbitrio, dono di Dio per i credenti, dei propri cittadini.

Quelle parole nel vuoto si trasformano ora in un poderoso urlo verso l’abisso di chi si ostina a non ascoltare. Il risveglio di Giobbe, forse? No, è la Gobba, piegata ormai come il ramo di un salice piangente che non ha più lacrime per piangere, dunque ride. Se la ride di fronte a chi propone a chi stoffe ulteriori sofferenze in luoghi ameni e faticosi senza offrire, concretamente, anche un modo agevole per arrivarci, per scalare un tortuoso monte pieno di pietre che massacrerebbero le mie ossa già devastate e, sicuramente, bucherebbero le ruote della sedia a rotelle.

Urlo, poiché capisco, solo ora, che non vi rendete conto che io, come tanti altri, non riesco più nemmeno a stare seduta, avendo bisogno di carrozzine basculanti fatte su misura. Urlo, perché nessuno di voi, tranne l’Associazione Coscioni, si batte affinché le compagnie aeree si dotino nei propri velivoli di posti riservati ai disabili rimanendo comodamente seduti sulla propria carrozzina senza dover essere tortuosamente spostati su sedili scomodi.

Urlo, perché quando già più di 10 anni fa mi trovai a chiedere aiuto alle istituzioni ecclesiastiche per sopperire alle assenze delle badanti, non trovai soluzione. Urlo, perché mi chiedo dove eravate voi quando, ormai bloccata in questa città senza lavoro e senza possibilità di guarigione, imparai a scrivere con la mano sinistra, io che non sono mancina, per partecipare ad un concorso pubblico per ingegneri ed architetti, sani. Urlo, dove eravate voi mentre con indescrivibile fatica andavo a lavorare con la badante, che poi tornava a casa, poi veniva nuovamente per parlarmi da mangiare, per aiutarmi ad andare in bagno…?

Dove eravate voi, concretamente non spiritualmente, quando giravo l’Europa per lavorare guadagnando e risparmiando il più possibile vista la rapida progressione della malattia, continuando ad iniettarmi diligentemente l’interferone, sorridendo e apparendo sempre così come sono, gioiosa amante della vita? Dove eravate voi, quando nel 2008, arrancando sulle stampelle, per la prima volta mi defecai addosso nel bagno della signora anziana che mi ospitava, pulendo ogni traccia degli esperimenti strisciando per terra? Dove eravate voi, quando ancora ignara del male che mi stava progressivamente annientando, cercavo di curare le urgenze urinarie con farmaci per la cistite?

La dottoressa diceva che erano cistiti. Dove eravate voi, quando prevedendo la perdita delle mani, pensai che sarebbe stato utile trovare un’applicazione per l’utilizzo di comandi vocali in grado di interagire anche con i più complessi software, così, riuscendo ad addestrare l’invenzione di qualcun altro per continuare a lavorare? Dove eravate voi, quando mi dissero che il mio cervello era a pois? Dove siete voi, ora, concretamente e non spiritualmente, mentre l’amico che con fatica mi assiste mi porge il bicchiere con la cannuccia per farmi bere?

Concretamente il Comune di Trieste e la stessa regione Friuli Venezia Giulia mi hanno dato molto. Il livello assistenziale da noi è elevato, ho sempre ribadito che ho avuto la possibilità di vivere dignitosamente anche grazie ai sussidi pubblici. Ma il mio urlo, che è l’urlo di tanti, va oltre all’assistenza, oltre alle cure palliative che sono comunque preziose e delle quali io stessa per anni ho beneficiato, va oltre alle lacune alle quali per tabù quasi atavici nessuno pensa (mi riferisco, per esempio, all’assistenza sessuale per persone non autosufficienti che in Olanda è assolutamente naturale, praticata da personale adeguatamente formato).

Questo urlo chiede libertà, libertà di scelta, chiede di riavere il libero arbitrio che Dio ci ha donato e non può esserci tolto da persone simili a noi ma con un destino più fortunato (benché io mi reputi fortunata, ricca, ricca di spirito e di resistenza, fortunata di essere nata in una famiglia che mi ha dato la possibilità di studiare). Il mio urlo è di incitazione verso tutti i neo diagnosticati, affinché non si arrendano alle prime difficoltà, ma che provino a continuare, sebbene con fatica, che si godano tutta la bellezza che la vita ci offre.

Ma per poter urlare ciò, devo essere anche certa che lo Stato conservi a loro il diritto di ARRENDERSI, ovvero: “sappi che, quando e se non ce la farai più, avrai una via d’uscita”. Il mio urlo, sempre intriso da quel sorriso che non ho mai perso, è pregno di fede, la fede in Cristo che ci ha salvati assumendo su di sé tutti i nostri peccati, i nostri dolori, le malattie, offrendoci salute e pace nel momento in cui lo riconosciamo come il Tutto che ci ama. Concreto, non solo spirituale.

Gentile Dottor Porro, purtroppo nelle sue parole, così soavi, dolci e soffici, non riesco a cogliere concretamente il messaggio che mi porge. Deve perdonarmi, ma nel caso fosse un invito a scalare insieme a Voi il monte Križevac, non ho sufficienti energie nemmeno per immaginario, io sognatrice indomita. Sono felice se mi porterete nel cuore e nelle vostre preghiere. IDEA! Anche qui nei paraggi ci sono monti da scalare, per esempio il Cocusso, Kokoš se saliamo dalla parte slovena.

No, pensiamo alla grande. Sono nata sotto una cava a forma di cuore. Un cuore di pietra che ancora batte nel mio petto. Organizziamo, dunque, un’epica impresa scalando la cava Faccanoni e portatemi sulle Vostre spalle fino in cima da dove potrò godere del panorama intriso dell’azzurro del mare. Chiuderò gli occhi e vedrò Venezia. La città dalla quale una malattia terribile e degenerativa mi ha esiliata.

Sempre scusandomi per gli errori dovuti ai comandi vocali, un gioioso saluto.

Un’Incurabile (che fu Martina Oppelli)

Riproduzione riservata © Il Piccolo