Ottavio Scotti, l’architetto di Umago firmò “Senso” dopo la dolce vita trascorsa a Tripoli

A Roma lavorò al fianco del regista Luchino Visconti per ricreare l’Ottocento italiano
Marina Petronio
Ottavio Scotti
Ottavio Scotti

Ottavio Scotti non avrebbe mai immaginato di percorrere la sua carriera nel campo cinematografico, lontano dalle sue originarie intenzioni di lavoro. Apprendiamo dallo “status animarum” che nacque il 23 febbraio 1904 a Umago, in una bella villa in via della Mujela.

La sua fu una brillante carriera. Durante una conversazione telefonica con la figlia, questa mi raccontò alcuni particolari della sua vita, pochi in verità, perché diceva che suo padre era molto modesto e schivo e, pur avendo avuto l’opportunità di lavorare con importanti personaggi, di ciò non aveva conservato ricordi personali.

Ottavio Scotti si era laureato in architettura, aveva sposato una ragazza di Reggio Emilia come gli altri suoi fratelli: l’aveva vista soltanto tre volte perché allora egli stava già a Roma, ma evidentemente si compresero al primo istante e fu un matrimonio felice.

Durante il periodo coloniale, quando Italo Balbo era in Libia, molti professionisti italiani vennero invitati a Tripoli per costruire palazzi e infrastrutture. La vita a Tripoli a quel tempo era veramente “dolce”, gli inviti e le serate si susseguivano piacevoli, i giovani sposi Scotti trascorsero infatti a Tripoli il viaggio di nozze.

Attraverso la conoscenza di Enrico Prampolini (1894–1956), affermato pittore, scultore e scenografo, e seguendo il suo consiglio, Ottavio iniziò a frequentare il Centro di Cinematografia di Roma, diretto dal regista Alessandro Blasetti (1900–1987), per acquisire la cultura e la tecnica cinematografica. Proprio Blasetti lo propose per il suo primo film: “Ettore Fieramosca” (1938) di cui fu appunto, scenografo. Dopo quel film, continuò a lavorare intensamente nel cinema, specialmente con Blasetti e, dopo due anni trascorsi al Centro di cinematografia, Scotti era preparatissimo a continuare in quella carriera.

Durante la guerra la sua attività non s’interruppe ma al contrario, la sua collaborazione venne considerata necessaria per il cinematografo di guerra, così con la “Scalera Film” fu trasferito a Venezia dove trascorse gli anni del conflitto, il teatro di posa si trovava alla Giudecca. Purtroppo non abbiamo foto dell’epoca se non un’immagine in cui la sua figura in piedi su una gondola si staglia lontanissima nell’atmosfera fumosa veneziana. Non è qui inclusa perché la sua persona è assolutamente irriconoscibile.

La famiglia nel frattempo era sfollata in Emilia e Ottavio si faceva lunghe pedalate in bicicletta da Venezia a Reggio per visitarla, durante quei percorsi rischiosi visse numerose avventure e sempre con la paura addosso quando attraversava i solitari sentieri di campagna. Com’è immaginabile, l’incertezza dei tempi e i pericoli dominavano ovunque.

Alla fine della guerra Ottavio Scotti ritornò a Roma dove si stabilì con i suoi famigliari continuando il lavoro di scenografia cinematografica. Scomparve a Roma il 23 maggio 1975.

Tra i film più importanti di cui ha curato la scenografia, ricordiamo in primo luogo “Senso” di Luchino Visconti, con l’interpretazione di Alida Valli (1954), “Teresa Venerdì” di Vittorio De Sica (1941) con Anna Magnani, “Catene” per la regia di Raffaello Matarazzo e l’interpretazione di Amedeo Nazzari (1949).

Lavorò pure con Mario Mattoli, Camillo Mastrocinque, Guido Brignone, Carlo Ludovico Bragaglia.

In qualche film fu architetto–scenografo (“Africa sotto i Mari” 1953, regia di Giovanni Roccardi), o arredatore (“La Certosa di Parma” 1948, regia di Christian–Jaque): sono soltanto esempi perché la sua attività fu veramente intensa e i film che curò, numerosissimi.

L’ultimo film di Ottavio Scotti risale al 1973: “La morte negli occhi del gatto” con la regia di Antonio Margheriti.

Per quanto riguarda in particolare il famoso “Senso”, Luchino Visconti e Ottavio Scotti lavorarono fianco a fianco affinché la scenografia risultasse corrispondente al periodo storico. Si riferirono al mondo dell’arte della fine Ottocento e, nella rappresentazione della scena in cui la contessa Livia Serpieri va a cercare l’ufficiale austriaco Franz Mahler s’ispirarono al quadro “La toelette del mattino” di Telemaco Signorini, realizzato nel 1898. Il tema audace del dipinto, ambientato in una casa di tolleranza di via Lontanmorti a Firenze, si riflette nel senso di decadenza e di lassismo che serpeggia nella caserma degli austriaci.

Proseguendo con altri esempi del film, quando Livia Serpieri apprende dello scoppio della III guerra d’indipendenza, sta per entrare nel palazzo Serpieri e la cameriera le porta un ombrello per ripararla dalla pioggia: il quadro ispiratore è “La visita” (1868) di Silvestro Lega, pittore macchiaiolo. Il bacio tra Franz e Livia nella villa è un chiaro riferimento al celebre dipinto “Il bacio” (1859) di Francesco Hayez.

Nella scena della battaglia di Custoza, Visconti inquadra l’episodio rifacendosi all’opera “L’accampamento militare” di Giovanni Fattori, arricchito di altri elementi come il fumo dei cannoni e gli alberi, come pure s’ispira al dipinto “Il campo italiano durante la battaglia di Magenta” (1862) dello stesso artista, quadro militare ma d’impostazione antiretorica.

Infine, nella scena in cui Livia raggiunge Franz nel suo appartamento di Verona, Visconti e Scotti soffermano la loro attenzione sulla tela di Telemaco Signorini “Non potendo aspettare (La lettera)” del 1867. Nel film sono riprese le pareti di colore rosso e i dipinti che vi erano affissi. “Senso” è dunque un film in cui la cultura, l’amore per i dettagli, la perfezione artistica impegnano Visconti e Scotti realizzando un’opera di bravura che non ci si stanca di rivedere e apprezzare.

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