L’alabarda spezzata della Triestina calcio: una storia già vista e un mare troppo calmo

Servirebbe un pool di imprenditori illuminati, che si ripartisca gli oneri del calcio

Fabrizio Brancoli
La manifestazione dei tifosi della Triestina dello scorso giugno
La manifestazione dei tifosi della Triestina dello scorso giugno

Incontro persone che mi dicono: per l’Unione non c’è più niente da fare. Altre mi dicono: guarda, ora è meglio che la Triestina fallisca. Meglio ripartire da zero, che continuare a raccontare un’agonia silenziosa, in un progressivo declino di interesse.

Non è solo una crisi finanziaria. È qualcosa di più profondo: uno stato cronico, la clonazione di un malessere. Tre, quattro rovesci societari in vent’anni. Forse il problema non è solo chi guida il timone, ma il mare in cui si naviga.

E il mare, davanti alla Scala Reale, qui a Trieste, è troppo calmo. A Brescia, dove la squadra è stata rimossa dal calcio professionistico per le sue inadempienze, si è innescato un moto collettivo: istituzioni in pressing, sindaca in azione, imprenditori coinvolti.

 

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I tifosi alabardati

E qui? I tifosi fanno la loro parte, si sono mobilitati e sono scesi in piazza. Ma il resto? Una città che si gira dall’altra parte, esasperata da anni di sofferenze sportive, mentre un suo simbolo rischia di sparire. Il confronto con il basket è impietoso.

La Pallacanestro Trieste vola, si qualifica per le coppe europee, stringe un’alleanza emotiva con la città, sfiora i seimila spettatori di media.

Eppure stiamo parlando dell’identità stessa della città. Ha vinto, l’Unione? Se lo chiedono tutti, la domenica pomeriggio o quando diavolo finiscono le partite in quest’epoca di calendari dissestati e di calcio spezzatino.

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L’Unione ha superato guerre, occupazioni, le SS, i titini, e persino gli inglesi che vietavano di giocare a Trieste. Ha pianto i suoi eroi caduti – come Grezar, morto a Superga – e celebrato i suoi padri nobili, come Rocco. Ha uno stadio pubblico magnifico, ha vissuto glorie e riscatti. E ha già affrontato, troppe volte, i fantasmi del fallimento.

Ma eccoci di nuovo qui: le casse vuote, le risposte che non arrivano. La Triestina resta una memoria condivisa; ma non sembra più una bandiera per cui battersi. Colpa anche delle pay-tv, delle partite stellari guardate in salotto sugli schermi in iper definizione. Ma qui, per fare calcio, ci sarebbe molto, se non tutto. Un contesto di società dilettantistiche serie – come il San Luigi, neopromosso in D, oggi con la prospettiva di diventare la prima squadra cittadina – lo stadio delle meraviglie e una posizione geografica strategica, ricollocata al centro del quadrante italo-mitteleuropeo-balcanico, anziché al margine della penisola.

Si resta ad aspettare magari l’ennesimo patron, il prossimo zio d’America. Che poi, questi zii americani non sono sempre efficaci, l’abbiamo visto. L’ultima proprietà che ha messo mani e milioni nella Triestina è arrivata con progetti ambiziosi, ha parlato di futuro e di rilancio. Ma negli ultimi anni ha lasciato il club in un limbo gestionale, senza controllo e con i conti in rosso progressivo. Una proprietà lontana, spesso senza voce.

Comune e Regione potevano (dovevano) muoversi prima per esplorare soluzioni alternative, hanno sottovalutato l’allerta e hanno concesso troppo credito alla gestione Rosenzweig; siamo alla sigla dell’ennesimo film dell’orrore sportivo con una società che rischia di sparire inghiottita dai debiti, mentre la passione dei tifosi non muore mai (neanche in terza categoria: scommettiamo?).

Ci vorrebbe una cordata di imprenditori illuminati e appassionati, che si ripartiscano gli oneri di un calcio esoso. Un progetto locale e sostenibile. Di aziende grandi, medie, medio-piccole ce ne sono e probabilmente esistono anche i know-how specifici, per gestire una squadra. La partenza di Attilio Tesser è stata un segno di allarme concreto, aveva detto che se ci fossero state delle certezze lui sarebbe rimasto.

C’era davvero un piano per fare grande l’Unione? O ci sono state sempre e solo delle exit strategy? Sarebbe interessante saperlo, ora. Non per accusare, ma per capire. Anche ripartire richiede consapevolezza.

Nel frattempo Trieste deve decidere se vuole ancora riconoscersi nella sua squadra, oppure no. Questo filo, rosso fuoco, un po’ logoro ma ancora forte, unisce generazioni e storie diverse. Va ripreso in mano, per ricominciare, ma davvero con il territorio al fianco. —

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