Capirossi dà l’addio al Motomondiale con l’omaggio a Sic

di Nereo Balanzin
VALENCIA
Loris Capirossi qualcosa deve aver sospettato, se è vero che è partito da Montecarlo (residenza) per Valencia a bordo di un furgone. Ha fatto bene; già ieri mattina, alla spicciolata, i colleghi della MotoGP hanno iniziato a bussare alla sua porta per consegnargli ciascuno il proprio casco. «La maggior parte lo farà domenica sera. Tirchi. Me li vogliono dare usati...» La battuta ci sta. Come ci sta un pelino di emozione per quel segno di rispetto ed ammirazione verso una carriera lunga 22 anni, e che proprio oggi si conclude. I compagni lo avrebbero festeggiato anche in maniera molto meno discreta, se il momento fosse stato differente. Prima ancora che qualcuno ci provasse, Loris ha detto no: con Simoncelli (e la morte) nel cuore, proprio non ne ha voluto sapere. Ed è in forse anche il secondo regalo che il campionato avrebbe voluto porgergli: la possibilità di provare, domani, ventiquattr'ore dopo la gara, tutte le MotoGP da 800cc presenti a Valencia. Una possibilità, in precedenza, stata concessa (parzialmente) a qualche raro ex. Tecnicamente, il 7 novembre anche Loris sarà uno che pilota lo è stato: però, una notte di sonno non può in realtà fare tanta differenza. «Ma forse non se ne farà nulla», informa.
Qualcosa ha preparato anche lui, per festeggiare se stesso: una tuta diversa dal solito, dominata da una striscia iridata, per ricordare i tre titoli mondiali conquistati (due in 125, uno in 250–28 GP vinti) e completata da un casco che racconta, attraverso le immagini delle tante moto con cui ha corso, i momenti più belli della carriera. In un angolo della visiera, a sinistra ed in basso, una decalcomania di Marco Simoncelli. Come una lacrima alla coda di un occhio.
Loris Capirossi è romagnolo. Ha trentott'anni, una moglie triestina, Ingrid Tence di Aurisina, un figlio Riccardo che la mamma chiama a volte “la peste” e una litania di passioni, quasi tutte collegate ai motori. Ama le barche: possiede una navetta – una cosettina a tre ponti e che, come tutte le imbarcazioni che ha avuto, si chiama sixty-five, il suo numero di gara. Apprezza le auto: per contarle le dita non bastano. Per piacergli, devono essere veloci, oppure pezzi d'antiquariato: ne possiede un paio, restaurate e che risalgono all'anteguerra. Ha vissuto una carriera a tinte forti: perché, pur essendo bravo nel trattenersi, non è proprio uno con peli sulla lingua. Perché al primo anno nel Mondiale, in 125, ha subito sbalordito vincendo il titolo (è tutt'ora il più giovane campione del mondo: 17 anni). Perché ha conquistato il terzo (in 250) con una spallata all'ultima curva che ha steso il compagno, Harada («mio figlio e sua figlia hanno recitato, a Natale, tenendosi per mano»). Non scorge eredi, in pista. «No. O forse sì: alla mia età, sono tutti bimbi miei».
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