«Così cambierò il rugby italiano (fin da subito)» IL TECNICO SPIEGA LA SUA FILOSOFIA: «I MIGLIORI LOTTANO FINO ALLA FINE»

di Fabrizio Zupo Ha fatto a tempo a giocare il Sei Nazioni Conor O’Shea nel 2000 prima di un infortunio alla caviglia che mise fine alla carriera di giocatore per aprire quella di allenatore con...
Di Fabrizio Zupo

di Fabrizio Zupo

Ha fatto a tempo a giocare il Sei Nazioni Conor O’Shea nel 2000 prima di un infortunio alla caviglia che mise fine alla carriera di giocatore per aprire quella di allenatore con cinque anni nelle giovanili dell’Inghilterra e cinque negli Harlequins portati a vincere la Premerieship dopo il bloodgate, lo scandalo del sangue falso utilizzato per far uscire un giocatore e far rientare uno già sostituito. Gli ex compagni di squadra lo chiamano tuttora Cesare per quel vezzo di lisciare i riccioli lungo le tempie. O’Shea piace per la positività dell’atteggiamento, la fiducia sul gruppo che, al netto degli infortuni, ha sin qui confermato. Una passionalità sorridente. Con gli azzurri è in luna di miele. Ha scelto di affrontare il Galles con molti “titolari” in panchina, pronti a entrare per mantenere la sfida sino all’80’. Tutto è pianificato: la vittoria sul Sudafrica è iniziata col famoso caffè a casa del capitano Sergio Parisse sei mesi prima.

La prima rivoluzione in Italia è stata il linguaggio. Dimenticate lo spirito di Pierre Berbizier, l’equilibrio di Jacques Brunel. Nulla di vago da interpretare per i giocatori. Tutto di pragmatico. Ha iniziato con “fit enough”(essere in forma) ha continuato con “work rate” (ritmo di lavoro) e “rollercoaster” (montagne russe) pronunciata nello spogliatoio a Firenze (O’Shea lasciò la videocamera libera di spiare) insieme con “Oggi facciamo la storia”. Rollercoaster perché?

«Le montagne russe sono la metafora della velocità con cui cambia lo stato d’animo in cui ti trovi durante la partita e a cui devi reagire. È successo due volte. Dopo il cartellino giallo in cui i ragazzi non hanno fatto segnare il Sudafrica pur restando in 14. E poi quando il Tmo ha annullato la meta azzurra nel finale, non hanno ceduto allo sconforto. Piccole cose fanno un grande risultato». Continua O’Shea: «Reagire è perdere di 70 punti contro i campioni del mondo e in una settimana cambiare facilmente atteggiamento e vincere».

Contro il Sudafrica c’era una prima linea di quasi esordienti che nell’ultimo match di Sei Nazioni – sei mesi prima – contava cinque presenze in tre. Cosa hai chiesto agli azzurri per il Sei Nazioni? «L’obiettivo non è vincere il torneo. Per il titolo ci sono le altre. Noi dobbiamo concentrarci sulle nostre performance, essere la migliore Italia possibile. Garantire 400 minuti di grandi prestazioni, essere in partita sino alla fine in ognuno dei cinque match. Vincere? Abbiamo già dimostrato di saperlo fare».

O’Shea ha fatto esordire otto giocatori e Federico Ruzza sarà il nono. Brunel ne fece esordire 43 in quattro anni, 12 nel 2015. Tanti o pochi? Su quanti giocatori può contare? Qual è se esiste il numero ideale?

«Otto? Sono tanti! Quanti giocatori? Difficile da dire, cerchiamo di dare profondità alla squadra. Non c’è fiducia se ogni settimana perdi con il tuo club in Celtic. Mi ricordo Robbie Henshaw (erede di O’Driscoll per l’Irlanda) il suo primo incontro fu contro i miei Harlequins, aveva 17 anni e giocava estremo con quel Connacth che perdeva di 60 punti e ora vince la Celtic. Gli ho predetto un futuro da centro. Quella franchigia non vince solo per il lavoro di Pat Lam, Qualcuno ha iniziato perché questo accadesse. Eddie Jones ha cambiato il destino dell’Inghilterra, ma volete dirmi che quella di Lancaster era terribile? Con Mike Catt e Brendan Venter facciamo tre lavori diversi. Obiettivi di short, mid e long term. Ora, perché giocatori come Citta o Ghiraldini non vogliono aspettare. Il 2019, per essere al Mondiale la squadra contro cui nessuno vuole giocare. Oltre, per vedere i ragazzi raccogliere il lavoro fatto. Come per Henshaw posso dire che giocatori come Padovani, Canna, Violi, Bellini, Lovotti e Castello possono diventare top player a 26-28 anni. Il lavoro è una miscela di eperienza e gioventù: con Sarto e Gori, Padovani e Mbandà, Riccioni, Rimpelli, Minozzi e gli altri Under 20».

Parola d’ordine? «Prestazione, prestazione, prestazione. Lottare, stare in partita. Se stai in partita qualcosa succede».

L’ideale è un gruppo esperto o tutti giovani da plasmare? «Con la old generations perché tu hai bisogno dell'esperienza. È importante per i giovani vedere Parisse. Sergio è incredibile. O Simone Favaro per uno che inizia come Mbandà».

Ha detto: se tutti ti dicono “shit”, è umano pensare che un po’ lo sei. Va rotto il cerchio di negatività. Lo spieghi.

«Per me i giocatori migliori sono le persone che capiscono che niente è perfetto. Tu hai una sfida durante la partita, durante la settimana, durante tutta la tua carriera. I migliori lottano sino alla fine, next, next. Vado avanti».

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