I magnifici 70 anni di Boscia

TRIESTE. I compleanni, assicura, non fanno per lui. «Non ricordo vere feste, quelle contano solo quando si è bambini». Nel destino dei “grandi” tuttavia c’è anche la celebrazione degli anniversari rotondi. E lunedì, caro Bogdan Tanjevic, saranno 70. Fioccheranno i messaggi e le telefonate. Una lunga giornata di “hallo”, con la voce sempre più profonda e l’album dei ricordi squadernato davanti.
«In fondo è come se avessi due volte 35 anni. E poi, se mi volto indietro, mi accorgo che in fondo giovane non lo sono stato mai. Ho iniziato ad allenare a 24 anni. Quando mi sono sposato ero un ragazzo ma tutti pensavano che fossi molto più grande. Nelle foto stavo sempre serio. Con i baffi. Dicono che ora sorrido molto di più. Invecchiare significa anche imparare a scherzare. Il modo migliore per affrontare anche i momenti peggiori. Ho cercato sempre di combattere con forza, l’ho fatto nel lavoro, l’ho fatto nella malattia. Lottare con il sorriso. Nessuno mi ha visto soffrire».
Il 13 febbraio «Non è solo la data del mio compleanno. C’è un altro ricordo. Quarant’anni fa giusti. Grazie a Delibasic il mio Bosna batte il Partizan. Momenti di gloria: con questa vittoria saliamo a +4 in classifica sulla Jugoplastika, a +6 sullo stesso Partizan, imbattuti a otto partite dalla fine di un campionato jugoslavo senza play-off e a 14 squadre. Altri tempi, d’estate si facevano due mesi e mezzo di preparazione... Il 13 febbraio pensiamo di avere già in tasca lo scudetto. La settimana dopo perdiamo con la Jugoplastika, poi perdiamo di nuovo. Noi diciamo: “Quando la scimmia ti gira le spalle”. Ecco, va tutto storto. A fine stagione Spalato si prende scudetto e Coppa Korac. Noi restiamo a mani vuote».
Mirza il migliore «Nei miei 70 anni ne ho visti ed allenati, di campioni. Al primo posto metto sempre Mirza Delibasic. Avevamo un legame fortissimo, l’ho guidato per otto anni nel Bosna e due in Nazionale. Grande persona, in campo e fuori. Sapeva sacrificarsi, poteva giocare dappertutto, come anni dopo avrebbe fatto Bodiroga. Era un campione ma anche un ragazzo semplice. I grandi non conoscono la cattiveria, non ne hanno bisogno. Penso anche al mio Oscar, che gioia averlo riabbracciato a Caserta qualche mese fa. Delibasic se n’è andato a 47 anni, come Cosic, un altro campione incapace di odiare».
Trieste, rimpianti e Petrovic «La mia vita è stata divisa a metà: 35 anni di Jugoslavia, 35 di Italia. A Trieste con la Stefanel abbiamo costruito una bella storia. Ci è mancato solo lo scudetto. Lo vincemmo poi a Milano però pare che lì tutti se ne siano dimenticati. Sì, è vero: c’è stato un momento in cui è mancato un niente che Drazen Petrovic firmasse per la Stefanel. Eravamo già d’accordo, avevo parlato con la madre, era ancora “picio” ma ero stato proprio io a lanciarlo in Nazionale. Un quadriennale da un milione di dollari. E invece retrocediamo, perdendo lo spareggio di Bologna contro Gorizia. Tutta colpa mia. Ero stato presuntuoso, avevo già in testa la squadra dell’anno dopo e non avevo fatto i conti con la drammaticità dello spareggio, affrontato per giunta senza il mio play, Fischetto. Drazen andò al Real Madrid. A Trieste ci è tornato più tardi, per allenamenti con i ragazzi delle giovanili. Lo ricordo ancora, con la bella tuta a quadratini che la Stefanel ci fece. I ragazzini impazzirono per lui. A Trieste il basket piace, lo respiri: mi entusiasma l’Alma, merita ogni domenica 6mila spettatori. Ma a Trieste il basket non vive solamente al Palasport. Ricordo quando portavo i miei figli al ricreatorio di Barcola. Bella cosa, i ricreatori».
Il futuro «Non mi sono posto traguardi. Mai pensato: “Arrivo a tot anni e poi smetto”. Per adesso vado avanti finché ho ancora la voglia di allenare. Mi piace prendermi cura della Nazionale del Montenegro, qualche buon risultato è già arrivato, il sogno sarebbe portarla alle Olimpiadi. Sarebbe fantastico. Curioso, no? Ho cominciato che ero l’allenatore di nazionale più giovane d’Europa: a 27 anni, agli Europei juniores. Adesso sono l’allenatore di nazionale più vecchio. Proprio vero: una vita intera sulla panchina».
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