Il ritorno del primo pivot Usa a Trieste

di Roberto Degrassi
TRIESTE
Prima di Rich Laurel, di Ron De Vries, prima ancora del predicatore Butch Taylor e della meteora Steve Brooks. Richard Montgomery è stato il primo “vero” americano del basket triestino.
Prima di lui si erano visti alcuni altri giovanotti nati negli States ma giocavano a basket solo dopo essersi tolti una divisa militare, come quel John Mascioni che poi sarebbe diventato il primo Usa della pallacanestro varesina.
Richard Montgomery, invece, un bel giorno del 1957 lasciò la California, attraversò gli Usa e si imbarcò sulla Giulio Cesare, fino a Napoli per poi raggiungere, dopo una tappa a Milano, Trieste. Lo aspettava la Sgt diventata Stock. Una storia che Montgomery, che ora è un pacioso signore di 75 anni, ha rievocato volentieri in un blitz triestino. Attorniato da alcuni compagni di squadra d’allora, complice l’atmosfera cordiale del “Salvagente”, a un sospiro dalle Rive, ha aperto l’album dei ricordi.
«Avevo studiato all’Università di Santa Clara. Non avevo ancora un’idea precisa sul mio futuro quando mi è stata lanciata la proposta di venire a giocare in Italia». Un contatto al quale non erano estranei lo storico patron della Borletti Milano (poi Simmenthal) Bogoncelli e il “Principe” Cesare Rubini. «Il professor Albino Bocciai mi venne a prendere a Napoli, mi portò a Milano e infine a Trieste dove mi piazzarono all’hotel Obelisco, un posto pittoresco. Per spostarmi mi rifilarono una Lancia Aurelia che...mah...(smorfia eloquente, ndr). Trieste mi accolse con affetto. Immagino che dovessi suscitare parecchia curiosità, ero pur sempre un americano di due metri e quattro quando nel basket italiano i lunghi veri erano davvero pochi».
«Ci allenavamo nella palestra della Ginnastica Triestina mentre per le partite c’era un padiglione della Fiera. Faceva un freddo cane. E mi è capitato di trovare pure del ghiaccio, con una fifa boia di scivolare. Ero alla prima esperienza fuori dagli Stati Uniti, conoscevo solo il basket del campionato universitario e mi sforzavo di capire dove fossi capitato. La squadra, per giunta, non aveva mai giocato con un pivot tanto alto. Non avevamo schemi diversi dal “chi è più libero tira”. Avevamo buoni giocatori: Porcelli, Damiani, Natali, Cavazzon...Peccato che i miei compagni di squadra non masticassero l’inglese, i miei interlocutori triestini erano l’allenatore Zar e studenti universitari che mi avvicinavano per fare un po’di pratica. Ma Zar, per fortuna, conosceva la pallacanestro e studiava per trovare un modo per coinvolgermi nel gioco della Stock».
Stimolato anche dai ricordi di GianFranco Perissinotto e Bruno Bianco, Montgomery continua la sua testimonianza. «I miei compagni di squadra lavoravano, io ero l’unico giocatore di professione e mi sentivo un po’ in colpa. Le trasferte, anche le più scomode, le affrontavamo in treno. Ci trovavamo alla stazione, il viaggio, qualche tiro tanto per conoscere la palestra, poi la partita e di corsa alla stazione per prendere il treno del ritorno. Dormire comodi? Macchè. La rete portabagagli diventava un giaciglio d’emergenza. Io, almeno, quando arrivavo a casa potevo andarmene a dormire davvero, gli altri invece andavano a lavorare».
L’americano (erano tre in tutto il campionato: oltre a Montgomery, alla Virtus Bologna c’era Fletcher Johnson, a Milano Bon Salle) non bastò a Trieste per fare un torneo all’avanguardia. «Ricordo che finimmo a metà classifica. A un certo punto, poi, perdemmo l’allenatore Zar e non fu più la stessa cosa». Montgomery rimase due anni, fino a quando venne decisa la chiusura del basket tricolore ai giocatori stranieri per proteggere la Nazionale in proiezione Olimpiadi di Roma 1960. Il lungagnone californiano lasciò Trieste portando con sè una valigia di ricordi e la moglie, la triestina Giovanna Stabile.
«Ebbi fortuna. Finii al Real Madrid. Non andò male ma avremmo potuto fare di più. Fummo però il primo quintetto a imporre una sconfitta agli squadroni russi che dettavano legge nella Coppa dei Campioni. Ricordo che in una partita dovevo vedermela con un centro di 2 metri e 14. Mi raccontarono che era un boscaiolo dirottato, vista l’altezza, a fare il cestista. Correva che pareva stesse sempre per stramazzare, non sapeva afferrare il pallone. Io, con i miei 204 cm, accanto a lui sembravo un bambino ma in compenso potevo batterlo in velocità. Anzichè timore, per lui provavo pietà».
Nel 1961 la fine dell’avventura. Ad appena 26 anni. «Nacque un figlio. Dovevo scegliere se continuare con il basket,a rischio di cambiare ogni anno squadra e città, oppure trovarmi seriamente un lavoro. Ho scelto la seconda via». Adesso si gode la pensione in Svizzera, a Ginevra. Ogni tanto, la rimpatriata a Trieste. E ogni volta è una festa con un fiume di ricordi.
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