Quel bronzo rimasto unico

Del triestino de Morpurgo nel 1924 a Parigi la sola medaglia azzurra nel tennis
Di Franco Del Campo

TRIESTE. Erano momenti di gloria. Parigi nel 1924 era più che mai la Ville Lumière e nei ruggenti Anni Venti nelle strade, nei boulevard, nei caffè, era facile incontrare personaggi come Picasso, Cocteau, Matisse, Buñuel, Dalì, Fitzgerald e sua moglie Zelda.

Nel 1924 Parigi ospitava per la seconda volta i Giochi Olimpici e voleva far dimenticare la pessima figura del 1900, quando erano stati confusi con l’Esposizione internazionale. Quando al barone Hubert Luis de Morpurgo arriva la convocazione per partecipare ai Giochi del 1924 nel tennis, gli sembra un atto dovuto, visti i risultati raccolti nel corso degli anni, ma è anche una grande soddisfazione e così lascia subito l’Inghilterra, dove vive, per raggiungere Parigi.

Hubert è nato a Trieste nel 1896, dalla grande e cosmopolita famiglia de Morpurgo, di origini ebraiche aschenazite, che ha ricevuto il titolo nobiliare dall’Imperatore per meriti commerciali (Lloyd Austriaco e Generali), ma presto se n’è andato a studiare a Oxford, dove conosce il tennis giocato sull’erba e si avvia ad una carriera tennistica ancora senza eguali. Durante la Grande Guerra è ufficiale della nascente aviazione austriaca, inquadrata nella marina, dove conosce Goffredo de Banfield, l’Aquila di Trieste, con il quale giocava anche a tennis.

Hubert, dopo la guerra diventa Uberto, cittadino italiano, e non gli dispiace difendere i colori italiani alle Olimpiadi, perché è abituato a volare alto.

A Parigi supera un avversario dopo l’altro ma viene battuto da Vinnie Richards, che poi vincerà la medaglia d’oro. Conquista, però, la prima e unica medaglia di bronzo olimpica del tennis italiano, sconfiggendo Jean Borotra, uno dei mitici “quattro moschettieri” del tennis francese, assieme a Jacque Brugnon, Henri Cochet e René Lacoste.

Il tennis, in quegli anni, era fatto più che mai da “gesti bianchi”; gli uomini giocavano con i pantaloni lunghi e le donne con caste gonne, le racchette di legno favorivano l’eleganza e la precisione del colpo, non certo la forza di penetrazione e sfondamento nel campo avversario. Uberto de Morpurgo, però, quando giocava voleva imporre la sua autorità e non disdegnava – lo ricorda Pierluigi de Morpurgo, che attinge da ricordi di famiglia - l’attacco e le volée, che erano considerate un eccesso di aggressività. Non di rado i suoi comportamenti erano discutibili, ma nessuno osava richiamarlo. Alto, bello, elegante, Uberto era il capo carismatico della sua squadra, quando ancora non esistevano capitani non giocatori o allenatori (si riveda “Momenti di gloria”, Oscar 1981). E poi non sopportava perdere, come dimostra l’episodio – raccontato da Gianni Clerici, il grande narratore della storia del tennis - dello schiaffo che diede a un suo giovane allievo, Giorgio de Stefani, che aveva osato sconfiggerlo. Quando giocava in doppio parlava in francese con il suo compagno di squadra e non esitava a entrare sui suoi colpi per chiudere il punto.

La sua carriera tennistica dopo Parigi è ancora lunga ed importante. Nel 1928 a Wimbledon arriva ai quarti, dove viene sconfitto da René Lacoste, vincitore del torneo, nel 1930 è settimo della graduatoria mondiale. Parteciperà più volte alla Coppa Davis con notevoli risultati, anche se non digerì mai il boccone amaro di non essere stato convocato nel 1922.

Alla fine non ritornò più a Trieste e morì a Ginevra nel 1961, ma resiste ancora la “maledizione de Morpurgo”, perché fino ad oggi nessun italiano ha osato vincere una medaglia olimpica nel tennis.

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