Quella manganellata risuona ancora nella testa dei tifosi alabardati

Più che i Beatles e i Rolling Stones, Stefano era un ragazzo che amava il calcio e la Triestina. Oggi avrebbe 54 anni, con ogni probabilità anche un lavoro e una famiglia e dei figli che avrebbe...
Silvano Trieste 2018-02-08 La mostra a ricordo di Stefano Furlan
Silvano Trieste 2018-02-08 La mostra a ricordo di Stefano Furlan

Più che i Beatles e i Rolling Stones, Stefano era un ragazzo che amava il calcio e la Triestina. Oggi avrebbe 54 anni, con ogni probabilità anche un lavoro e una famiglia e dei figli che avrebbe portato al Rocco, in curva, per gridare insieme “alè Unione”. Via dallo stadio due birre con gli amici in un pub di Valmaura per commentare la partita e poi via a casa per la cena con la televisione sintonizzata sul posticipo serale di serie A. Ma questa vita normale a Stefano Furlan è stata negata, non se l’è mai goduta. Gliel’hanno spezzata. Portata via a soli vent’anni in quel maledetto 8 febbraio 1984. Un’esistenza rubata da una manganellata sferrata alla testa con inaudita violenza per l’unica colpa di essersi trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato. Un ragazzo di soli tre anni più vecchio (ma con l’uniforme della polizia) contro un altro ragazzo che era tutto fuorchè un violento. Ma quel tremendo colpo di manganello non è andato a segno una sola volta, ma cento, mille volte. Ogni anno, quando ricorre l’anniversario della morte di Stefano quel colpo risuona nella testa di quei tifosi alabardati che non vogliono dimenticare e ancora oggi gridano a squarciagola "Stefano Furlan, ucciso dallo Stato". Una ferita che non si è mai rimarginata, una morte assurda e un caso chiuso con una lieve condanna di un anno con i benefici di legge. Stefano era una persona mite e gentile che aveva una grande passione, la Triestina. La sua morte, a parziale consolazione, ha almeno riportato in superficie importanti valori che nel calcio erano diventati un optional.

Il film di quel tragico pomeriggio, seppure con qualche buco nero, è ormai noto: una volta finito il derby tra Triestina-Udinese, Stefano, un diploma di geometra in tasca, ma senza un lavoro fisso e impegnato nel volontariato, lascia lo stadio per andare a riprendere la sua 128. Secondo la versione della polizia, fuori dal Grezar c’è grande tensione. Per evitare scontri tra le due tifoserie, le forze dell’ordine iniziano a caricare un gruppo di tifosi alabardati. C'è un fuggi-fuggi generale. Anche Stefano si mette a correre. Ha paura. Un poliziotto lo prende di mira, in effetti sembra una preda facile. Lo raggiunge e gli sferra quella violenta manganellata, forse lo sbatte anche contro il muro. Dopodichè viene condotto in questura e in serata rilasciato visto che non aveva fatto nulla. Ma il primo e decisivo atto della tragedia ormai si è già consumato. Arriva a casa bianco come uno straccio, pesto e stordito. Mamma Renata è preoccupata, ma Stefano non ha voglia di parlare. Va a letto. Il giorno dopo sta malissimo, ha forti dolori alla testa e si reca al pronto soccorso dove perde presto conoscenza. Lo operano d'urgenza ma è troppo tardi. Dopo venti giorni di coma il suo fisico si arrende. Son passati 34 anni ma sembra ieri. Una mostra e le commemorazioni degli ultras non bastano per rendere giustizia a una vittima del calcio ma è l’unico modo possibile per stargli ancora vicino e per ricordarlo. Ma a evocare la morte di Stefano è stato un altro oscuro episodio che presenta più di un’analogia. E' accaduto proprio nel campionato di serie C, il 5 novembre scorso in occasione di Vicenza-Sambenedettese. Alla fine dell'incontro fuori dallo stadio le due tifoserie sono entrate in rotta di collisione fino a quando è sopraggiunto un reparto della “celere” per disperderle. A terra, privo di conoscenza, è rimasto un supporter ospite, Luca Fanesi, 44 anni. Le sue condizioni sono apparse subito molto gravi. E' già stato operato tre volte alla testa, ma a differenza di Stefano dovrebbe farcela. La polizia ha sempre sostenuto di non saperne niente ipotizzando un caduta accidentale. Il fratello di Loris non si è dato per vinto. Vuole verità e giustizia e forse ora sembra averle trovate. Le indagini sono approdate a una svolta quando la Procura ha acquisito la scheda degli operatori del 118, il cui referto parla chiaro: «Trauma cranico dopo colluttazione con agenti di Ps». Ma il “sacrificio” di Stefano, allora, non è servito proprio a nulla?

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