ADDIO A ENZO BIAGI, TESTIMONE DEL ’900
L’epitaffio, quella frase stretta e densa che i vivi incidono sulla tomba di un umano è quasi sempre un omaggio addolcito dalla circostanza che il destinatario dell’elogio non c’è più e rinforzato dalla retorica commossa e percossa dal mistero ostile della morte. Con il risultato che un epitaffio quasi mai riesce nel suo doppio intento: simulare immortalità e condensare e illustrare una vita, il che, in una frase, di un uomo non si può.
Ma di Enzo Biagi giornalista, il giornalista contemporaneo, quello che resta vivo al mestiere dopo che lui se n’è andato, un epitaffio può scriverlo, breve, denso e vero: "Faceva un altro mestiere". Era altro il mestiere che faceva Biagi, che ha sempre fatto. Non quello del cronista umile e faticatore in opposizione a quello del letterato da banco, scrivania e tastiera. Certo, Biagi "consumava la suola delle scarpe" come usa, usava dire nella nostra professione. Andava a vedere, toccare, sentire di persona ciò che oggi si vede, sente e tocca soprattutto affidandosi al telefono e al computer. Biagi, come avrebbe detto più tardi Eugenio Scalfari indicando il dover essere del giornalista, "pensava con gli occhi". O almeno questo riteneva fosse il mestiere.
L’esperienza empirica faceva parte, innervava il suo giornalismo. Eppure non ne era la cifra, solo una modalità. Preziosa perchè sempre meno coltivata. Ma la vera cifra di Biagi giornalista era altra: l’impossibilità di aprir bocca e scrivere una riga senza la regia di un’etica. Senza una geografia profonda e testarda, senza una mappa rigidamente dolce delle cose che si fanno e non si fanno, di ciò che è bene e ciò che è male fare, per Biagi non si aveva il diritto di scrivere e parlare. Il come fare giornalismo non poteva prescindere dal perchè farlo, separare i due momenti era per lui una contraddizione in termini. Oggi si fa fatica a spiegarlo e si ha la sensazione di usare parole obsolete: il giornalismo di Biagi era civile e civico, educato alla ricerca e al rispetto di questi due canoni. Ne derivava un rapporto con i poteri e con i potenti altro dagli altri due canoni che oggi il giornalismo osserva: l’antipatia programmatica e tribunizia e/o la vocazione a fare di se stessi il latore di messaggi, auspici e vaticini.
Biagi non era un giornalista "contro" e neanche un giornalista "amico", il suo giornalismo era la migliore approssimazione in terra della metafisica missione che gli anglosassoni assegnano (assegnavano?) Alla stampa: "cane da guardia dei poteri". Intervistava, ma non era un cane da riporto di dichiarazioni, la parola, le parole dei potenti restavano per lui mezzo e non fine ultimo. E non faceva della disobbedienza al potere una maschera fissa della professione, a lui faceva piacere far dispiacere al potere perchè era un lusso, un premio al mestiere che si coglieva quando e solo quando l’etica delle proprie parole e dei propri scritti era evidente e soddisfatta. Perciò Biagi era un "media", un termine medio tra il fatto e il suo lettore o spettatore.
Termine medio e non megafono amplificante o specchio deformante, termine medio perchè il fatto andava prima assunto nella sua complessità, e poi metabolizzato nella divulgazione semplice. E questa individuale fatica faceva del giornalismo un corpo intermedio della società, uno di quei corpi intermedi tra istituzioni e popolo che, non essendo né l’uno né l’altro, per ciò stesso garantiscono democrazia. Un altro mestiere.
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