Adozione, una sfida da vivere insieme

Integrazione è una parola dalle mille sfaccettature. La si può sentir pronunciare in diversi contesti, ma ha sempre a che fare con un qualcosa di diverso che entra a far parte di un mondo andando a comporre una nuova realtà. Questo concetto può essere replicato anche nella relazione con l'altro. E quell'altro può essere un bambino adottato o dato in affidamento.
È iniziato così, dalla parola integrazione, il primo incontro del ciclo di appuntamenti organizzati dall'Associazione nazionale famiglie adottive e affidatarie (Anfaa) nel progetto “Un coccodrillo e tre leprotti”. Con questi incontri, ha spiegato il presidente di Anfaa Dario Montagnana, «vogliamo trovare un metodo di lavoro per affrontare temi che hanno a che fare con la quotidianità». Al primo incontro ha partecipato come relatore Giuseppe Milan, ordinario di Pedagogia interculturale e sociale all'Università di Padova e direttore del Centro interdipartimentale di Pedagogia dell'infanzia.
Non ci sono ricette particolari per affrontare il rapporto tra genitori e figli adottivi o in affido, ha esordito Milan: «In questi casi possiamo parlare di esperienza unica, sovversiva, una rottura degli schemi, un modo di uscire dal conformismo per un rinnovamento personale». Rispetto a un normale percorso dove i genitori si devono confrontare con i loro figli naturali, il mondo delle adozioni e dell'affidamento, ha proseguito Milan, «è un laboratorio di esperienze che ci obbliga a essere precursori ma anche capaci di adattarci e di integrarci con il nuovo arrivato». Perché molteplici possono essere le problematiche che soprattutto il bambino ha dovuto affrontare nel suo seppur breve percorso di vita.
«Ogni bambino è una sfida e per crescerlo ci vuole una comunità, una società, una famiglia. Per questi piccoli è più importante un utero sociale piuttosto che biologico, perché già dalla nascita vivono l'abbandono, e ce ne sono altri che vivono una molteplicità di appuntamenti mancati».
E qui ci si deve porre la questione: chiusura o ospitalità? «Il percorso dovrebbe portare il bambino a sentirsi figlio dei genitori, e fratello o sorella. Un percorso più difficile perché il bambino adottato o affidato è portatore di una storia pesante di una infanzia che gli è stata negata o che non è mai arrivata. C'è spesso il trauma dell'abbandono ripetuto che lascia ferite importanti». Da questo punto di vista i genitori adottivi o affidatari hanno una responsabilità in più, ha aggiunto Milan: «Creare un progetto comune orientato al futuro con umiltà e accettazione dell'altro, con l'arte di stare assieme nella prossimità delle differenze. Le strade più belle sono quelle in salita».
Ivana Gherbaz
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