«Aiutando i bambini a guarire si cresce ogni giorno di più»

Le storie dei piccoli venuti da lontano per cure impossibili nei loro Paesi d’origine si mescolano a quelle di operatori e volontari che li accolgono nelle case dell’ente

Bosnia Erzegovina, Mostar, gennaio 1994. Zlatko ha quattro anni e corre veloce. Entra in un cortile che appare sicuro e invece non lo è. All’improvviso, piovono granate. Zlatko rimane protetto dai corpi di quei giornalisti arrivati da lontano per raccontare il dramma dei bambini che, come lui, vivono la guerra. Marco Luchetta, Alessandro Saša Ota e Dario D’Angelo, quel giorno, se ne vanno per sempre. Due mesi dopo muore il cameraman Miran Hrovatin, ucciso in Somalia con la reporter Ilaria Alpi. Italia, Trieste, maggio 2018. Sono passati 24 anni da quei momenti oscuri, ma c’è una luce di speranza che riemerge ora dalle voci e dai volti di alcuni operatori e volontari della Fondazione Luchetta Ota D’Angelo Hrovatin, seduti al tavolo nella sede di via Roma: Daniela, Alina, Maria, Francesco, Franco, Gabriele, Marina e Giuditta.

I bambini anzitutto Quanti bambini, dopo Zlatko, sono arrivati da zone di guerra e periferie del mondo per essere presi in cura? Tanti, tantissimi. Centinaia, da tutto il mondo. E nessuno, qui, dimentica le famiglie, i timori e i desideri che si sono intrecciati in questo luogo. C’è chi, come Marina, che cura i rapporti con il Burlo, ricorda tutti i nomi dei piccoli ospiti. Storie di malattie oncologiche, di disturbi post traumatici da stress, di problematiche non curabili nei paesi d’origine. Storie che, ad ascoltarle, tolgono il fiato. «Un bicchiere d’acqua?», chiede Daniela Schifani Corfini Luchetta, insegnante, presidente della Fondazione e moglie di Marco Luchetta, riportandoci al presente. «Le nostre case sono sempre piene – comincia a raccontare –. Abbiamo ricevuto un edificio in eredità a Sgonico che è stato ristrutturato e abbiamo due appartamenti in città, in via Valussi e in via Chiadino. Abbiamo 12 persone assunte e costi fissi notevoli ma riusciamo comunque a mantenere un buon livello di accoglienza per le persone che si fermano il tempo necessario e poi ripartono. Spesso continuiamo a seguirle: tornano qui per i controlli o spediamo loro i farmaci».

Gli ospiti da lontano Giuditta è una volontaria storica in costante contatto con i Servizi sociali, che cura amorevolmente il grande orto della struttura del Carso.

«Alle famiglie è lasciata una certa autonomia – racconta – e grazie a come è organizzata la vita nelle case tra di loro si creano anche dei legami». Francesco, che opera per lo Sprar in collaborazione con l’Ics e il Comune di Sgonico, ci descrive il suo ambito di lavoro: «È un progetto pilota in Italia, rivolto a famiglie con protezione internazionale che hanno bambini bisognosi di terapie mediche. La nostra casa ha 20 posti e ora ospita sei famiglie: quattro dalla Nigeria, una dalla Libia e una dal Venezuela».

Un crogiolo di storie La Fondazione incontra molte narrazioni che, come testimonia Francesco, «a volte spiazzano, costringono a non dare nulla per scontato e fanno riflettere sui nostri assiomi». Tra queste c’è la storia di Salemleh, arrivato dalla Somalia a 12 anni, con una disfunzione dell’apparato urinario. «Aveva perdite continue –racconta Daniela-. Non aveva alcuna vita sociale. Quando l’infermiera l’ha toccato per la prima volta, l’ha morsicata. Non riusciva neanche a credere che qualcuno lo stesse aiutando. È arrivato con una mamma deliziosa e tosta. Quando è entrato in sala operatoria ha chiesto: “Potrò giocare a calcio?”. E quando è uscito lo hanno accolto con un pallone». Salemleh è rimasto ospite per circa un anno, ha cominciato ad andare a scuola ed è stato ben accettato dai compagni. Said e Montassier, invece, sono due ragazzini palestinesi di 12 e 13 anni. Rimasero coinvolti in una vicenda orribile che segnò Gaza e buona parte della comunità internazionale nel 2014.

Assieme a sei dei loro fratelli, stavano giocando a calcio sulla spiaggia. Furono colpiti da un missile israeliano, che uccise quattro di loro. «Quando sono arrivati avevano paura del buio e in via Valussi dormivano sempre con la luce accesa», ricorda Daniela. I due cugini sono stati accompagnati dai papà. Montassier era stato ferito in modo più grave: gli erano rimaste nel corpo delle schegge e soffriva di una diminuzione dell’udito. Fisicamente sono migliorati molto e sono stati aiutati dai dottori Paolo e Gianpietro Gherbassi, che hanno anche curato gratuitamente alcune carie. Poi è arrivato Adalle, 10 anni, rimasto a Trieste per più di due anni. Come molti altri, proviene dalla comunità yazida irachena, una minoranza religiosa di etnia curda vittima delle persecuzioni dell’Isis. «Sono stati costretti a scappare nelle montagne con i bambini sulle spalle – racconta Maria – e tanti di loro sono morti di sete.

Ogni nucleo yazida che arriva da noi ha dei parenti morti. Eppure esprimono tutti grande serenità e apertura, una capacità di stare insieme che è stata una scoperta». Adalle soffriva di un difetto di natura ortopedica a un braccio ma il vero problema è stato scoprire che aveva l’emofilia. «Un ragazzo delizioso – sottolinea Daniela – che ha imparato l’italiano benissimo».

Le seconde “volte” Molti bambini tornano ciclicamente per le cure. Come Erika, rientrata un mese fa per l’ultimo controllo. Aveva otto anni quando è arrivata dal Camerun con una grave forma di leucemia. Ora ha 16 anni, ha subito un trapianto ed è una ragazza serena. Anche Arun è rimasto nel cuore di tutti.

È giunto in Italia con la zia e all’inizio era completamente ricoperto di squame, non aveva i capelli e stava perdendo la vista. Quasi non riusciva a parlare. «La cura era banale – puntualizza Daniela –, qualche farmaco e poi bisognava soprattutto ungerlo con una crema che in Somalia non avevano. Era un problema di tipo genetico e il fratellino era morto per la stessa malattia».

Lo strappo alla regola C’è infine la storia di Islam, una giovane palestinese accompagnata dal padre e accolta nonostante avesse superato l’adolescenza.

«Quando è arrivata, guardando il passaporto, abbiamo capito che aveva 18 anni e non otto come ci avevano segnalato. Abbiamo riunito il Cda e abbiamo deciso di aiutarla comunque», dice Daniela. Islam era stata emarginata per via di una displasia all’anca. «Credo che ora possa rifarsi una vita – sottolinea Maria –, ha lottato come un leone». Situazioni gestite con grande professionalità e anche con forte empatia. I bambini in genere sono accompagnati da un genitore, ma spesso anche dai fratellini. L’attenzione degli educatori, quindi, non è rivolta solo alle malattie, ma l’obiettivo generale comprende, soprattutto nei casi di degenze più lunghe, la cura delle relazioni con le famiglie e la loro integrazione. A volte capita che alcuni genitori facciano fatica, inizialmente, a credere in un aiuto disinteressato da parte della Fondazione. Ma, il più delle volte, i rapporti sono di collaborazione positiva. «Viviamo ogni sfaccettatura della vita di queste persone – fa notare Gabriele –. La loro gioia, la loro tristezza e la loro rabbia, in un continuo rimando di emozioni che necessita di un filtro per non rischiare di portare tutto a casa».

L’orgoglio dell’accoglienza Ma la motivazione, come ricorda Alina, resta grande: «Senti che stai cambiando qualcosa, che stai facendo piccole cose per una persona che sta dentro un ingranaggio più vasto. Ogni giorno cresci, perché devi pensare a cosa è necessario per quella persona e a come devi cambiare tu per essere in grado di aiutarla».

Come ha scritto qualche tempo fa Ennio Remondino, l’inviato speciale della Rai nel 1994 a Sarajevo, l’onlus è «in qualche modo la prosecuzione del reportage di Marco, Alessandro e Dario iniziato 20 anni fa a Mostar in quel dannato cortile di una casa popolare con Zlatko».

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