«Ali, un combattente che usava la testa prima dei muscoli»

Il ricordo di Nino Benvenuti, che lo conobbe a Roma 1960: «Faceva cose che nessuno aveva mai visto, lo imitavamo»
Nino Benvenuti e Muhammad Alì in un incontro a Palazzo Chigi nel 1999
Nino Benvenuti e Muhammad Alì in un incontro a Palazzo Chigi nel 1999

TRIESTE. Roma ’60, le Olimpiadi. È lì che Nino Benvenuti conosce Cassius Clay. Nino, il ragazzo che da Isola d’Istria veniva a Trieste in bicicletta per imparare a boxare, vince la medaglia d’oro nei welter. Cassius, il diciottenne che arriva dal Kentucky, è invece campione olimpico nei medio-massimi. Ma l’italiano conquista anche la coppa Val Barker per la miglior tecnica espressa nell’intero torneo, che pure sembrava destinata, si dice, proprio allo statunitense.

Benvenuti, cosa ricorda di quando conobbe Cassius Clay alle Olimpiadi di Roma?

«Simpatizzammo subito a bordo ring. Sin da giovanissimo era di una gentilezza assoluta, non era un prevaricatore, non voleva apparire per quello che non era. Ed era di una bellezza statuaria, aveva un fisico perfetto. Sul ring, poi, non ce n’era per nessuno. Faceva cose che nessuno aveva mai visto. E le faceva con una tale disinvoltura che neanche capivi come ci riuscisse! - Tecnica perfetta e comportamento perfetto. Sì, sul ring non è mai uscito dalle regole. Perché lui combatteva prima di testa e poi con i muscoli».

Il vostro rapporto di amicizia proseguì poi negli anni...

«C’era tanta simpatia l’uno per l’altro. Io lo ammiravo e so che anche lui mi ammirava. E questo mi riempiva d’orgoglio».

Lei ha sempre definito Cassius Clay il più grande pugile della storia.

«E lo è stato davvero. Boxava con una naturalezza assoluta e a noi non restava altro da fare che cercare di imparare il più possibile da lui, memorizzare le sue mosse. Poi, se avevi la tecnica giusta potevi anche pensare di provare a fare quanto imparavi, altrimenti lo ammiravi e basta».

A metà degli anni Sessanta Cassius Clay divenne Muhammed Ali...

« Quando prendeva una decisione era perché ne era convinto fino in fondo. Non faceva mai nulla con superficialità: l’ho detto, era un uomo, oltre che un atleta, molto intelligente, di grande testa prima ancora che di grande fisico».

E ha anche vissuto con molta dignità la sua malattia: tutti lo ricordiamo ultimo tedoforo alle Olimpiadi di Atlanta proprio vent’anni fa. E apparve chiara al mondo la sua malattia.

«Dice bene: la visse con grande dignità, non si vergognava affatto di essere malato. E questo perché era talmente tanto grande dentro che tutto il resto gli scivolava via. La sua statura di uomo gli ha permesso di vivere con grande intelligenza anche la malattia».

Ma, se proprio vogliamo trovare un difetto in Cassius Clay, possiamo dire che ha fatto qualche combattimento di troppo a fine carriera, diciamo dal 1977 in poi?

«Non solo possiamo dirlo, lo dobbiamo dire. Perché senza quei match, in cui apparvero evidenti i primi segni della malattia, oggi sarebbe ancora qui con noi. Sì, ha esagerato nel voler continuare. Aveva una moglie che gli voleva un gran bene e alla quale lui voleva un gran bene. Perché non godersi la vita?».

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