Assolto l’eremita che coltiva marijuana

Il triestino Luca Floramo si presenta a processo a piedi nudi. Il perito: «Vive come nel Settecento». Il giudice lo lascia andare
Di Corrado Barbacini

È stato assolto dall’accusa di coltivare 73 piantine di marijuana per «carenza di imputabilità». Luca Floramo, 48 anni, triestino, è un personaggio incredibile che ha trasformato in avventura la sua vita. Le piantine, al centro del processo del giudice udinese Andrea Fraioli, erano state scoperte nel settembre del 2012 dai carabinieri di Cividale. Crescevano evidenti e rigogliose nell’orto della casa di Lusevera. Una casa isolata dal mondo dove non c’è la luce e nemmeno il riscaldamento. E dove, come racconta il difensore Filippo Mansutti, Florano vive da eremita completamente isolato dal mondo e dalla società, trascorrendo la giornata in totale solitudine e alimentandosi con la frutta e la verdura coltivate nel suo orto.

«Vive come vivevano le persone del diciottesimo secolo» spiega lo psichiatra Corrado Barbagallo, il consulente nominato dal Tribunale. Lo stesso medico, sulla cui perizia si è basato il giudice per pronunciare la sentenza di assoluzione, riferisce che Luca «non è un soggetto pericoloso e che quella droga, coltivata spudoratamente in cortile, avrebbe dovuto servire solo a fini personali. Non allo spaccio».

L’eremita triestino se n’è andato da Trieste nel 1999 quando aveva 32 anni e abitava in via Baiardi. Ha venduto tutto quello che aveva, anche la casa che gli aveva regalato la famiglia, investendo i soldi nella realizzazione di una barca. Non certo una barca supetecnologica. Ma una barca costruita con le sue mani con una bella vela latina, quella quadrata che usavano gli antichi, priva di motore, dotata solo un paio di bussole. E chiamata, in dialetto triestino, «Kigaridù». «Chi ha riso».

Qualcuno, al tempo, l’aveva definito il «Soldini dei poveri» per la sua impresa ai limiti dell’impossibile. «Mi metterò finalmente a vivere come accadeva una volta, vivere di niente, vivere del pescato, alla ricerca di me stesso» aveva raccontato mentre stava costruendo la sua barca a un amico appassionato di barche oltre che psichiatra, Anacleto Realdon, che poi aveva ricordato l’episodio in un articolo pubblicato sulla rivista specializzata Bolina.

Luca, che per qualche tempo aveva fatto lo skipper, era partito in silenzio. Lo stesso silenzio mantenuto durante la costruzione della sua imbarcazione. Un’impresa titanica.

La sua avventura marina, iniziata appunto con la partenza da Trieste nel 1999, era finita con l’arrivo in Nuova Zelanda nel maggio 2002. Luca aveva navigato per il Mediterraneo e per tre oceani sempre in solitario: Atlantico, Indiano e una parte del Pacifico Australe. Decine di migliaia di miglia, sempre senza motore e senza che il resto del mondo, sempre tanto avido di notizie, conoscesse le sue vicissitudini che avevano dell’incredibile. Luca aveva mosso la sua barca a tappe. A ogni approdo aveva cercato un qualsiasi lavoretto (falegname, meccanico, elettricista, pittore, sub, muratore) impiegando i pochi attrezzi tenuti in barca. Nei porticcioli, si sa, c’è sempre bisogno di manodopera e Luca la offriva a buon prezzo. Questo gli aveva permesso di proseguire la navigazione, sia pure lentamente, ma in piena libertà e come un dono spontaneo della natura.

Un uomo sempre al verde nell’azzurro del mare. Poi, al rientro in Italia, si era trasferito a Lusevera, vicino a Cividale, in un posto che più isolato non si può. E lì era incappato nei rigori della legge. Settantatre piante di marijuana, 876 grammi occultati in un sacco e 573 grammi messi a essiccare nella propria casa.

Per andare a Udine, al processo, Luca ha camminato scalzo per due giorni. Ha dormito nella tenda che si è portato in spalla. «Signor giudice, cos’ho fatto di male?», ha chiesto. Alla fine è stato assolto.

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