Belgrado ricorda le bombe del 1999 fra cerimonie e parate militari

Il 24 marzo di vent’anni fa i primi missili Nato: in pochi mesi centinaia di vittime. Vućič: «Perdonare ma mai dimenticare»
BEL06-19990328-BELGRADE, YUGOSLAVIA: : Locals from a village some 30 kilometres west of Belgrade rolling a wing of the crashed US F117 Stealth bomber Sunday 28th March 1999 during a break in the air raids. The aircraft crashed late yesterdy but it is still unclear whether it was brought down by Serb fire or a technical fault. EPA PHOTO/SRDJAN SUKI
BEL06-19990328-BELGRADE, YUGOSLAVIA: : Locals from a village some 30 kilometres west of Belgrade rolling a wing of the crashed US F117 Stealth bomber Sunday 28th March 1999 during a break in the air raids. The aircraft crashed late yesterdy but it is still unclear whether it was brought down by Serb fire or a technical fault. EPA PHOTO/SRDJAN SUKI



«Pensavamo fosse una minaccia vuota, quella della Nato, quando hanno iniziato a bombardare siamo rimasti scioccati. Fu una primavera calda, di vera anarchia», ricorda Jelica, ventenne e incinta quando i missili caddero sulla Serbia, nel 1999. «Ci siamo sentiti abbandonati dall’Occidente, malgrado avessimo noi stessi protestato per anni contro Milosević, fu un’ingiustizia», le fa eco un’altra donna, a passeggio per la capitale serba.

Sono queste alcune delle impressioni raccolte a Belgrado, tra la gente, nell’imminenza del ventennale dell’inizio dei bombardamenti della Nato sull’allora Repubblica federale di Jugoslavia – cominciati il 24 marzo 1999 – seguiti da tre mesi di guerra dal cielo - aggressione o intervento umanitario a seconda dei punti di vista -: evento che provoca ancora polemiche e rabbia, per le ferite aperte. La rabbia è quella contro la Nato, con il 79% dei serbi - secondo un sondaggio reso ieri pubblico - che voterebbe contro in un referendum per l’adesione all’Alleanza (uno scenario irrealistico, per un Paese neutrale) mentre il 64% rifiuterebbe eventuali scuse dall’Alleanza.

I bombardamenti furono decisi – senza mandato Onu – per costringere Slobodan Milosević a fermare la repressione e la pulizia etnica contro gli albanesi in Kosovo. Il prezzo fu però alto: i morti furono quasi 800 – tra cui 300 militari - secondo il Fondo per il diritto umanitario, 500 civili secondo Human Rights Watch, ma altre stime parlano di 2.500 vittime e 12 mila feriti, in 78 giorni di bombardamenti. Quasi trenta miliardi di dollari, dicono valutazioni indipendenti del 2006, i danni inferti alle infrastrutture, scuole, ospedali, industrie, strade e ferrovie, aeroporti e ponti. E ancora vivissime sono le memorie degli attacchi più controversi, come quello ai ponti di Novi Sad, a un treno passeggeri a Grdelica, al quartier generale della Tv di Stato, all’ambasciata cinese. Gli attacchi, almeno all’inizio, furono invece «celebrati» dagli albanesi del Kosovo come la salvezza contro il pugno duro di Milosević, ha ricordato al portale Birn il giornalista Avni Zogiani.

La cosa certa è che, vent’anni dopo, il tempo dell’avvicinamento tra Nato e Belgrado è ancora lontano. «Nessuno deve ricordare alla Serbia i propri errori, ne siamo consci, ma i bombardamenti del 1999 furono un errore di altri», si è pronunciata ieri la premier Ana Brnabić. L’attacco fu «un grave crimine», potremo «perdonare ma mai dimenticare», ha dichiarato anche il presidente Aleksandar Vučić, ricordando che il popolo serbo non deve «sentirsi sconfitto», ma sottolineando che ancora oggi «soffre le conseguenze» dei bombardamenti: un non troppo tacito riferimento anche al caso uranio impoverito, sempre più attuale per gli studi in corso a Belgrado sugli effetti delle bombe sui bambini. «In un quadro di violenze e pulizia etnica» in Kosovo «l’intervento Nato fu giusto e inevitabile», ha però ribadito ieri alla Bbc l’ex celebre portavoce Nato, Jamie Shea, che ai tempi aveva definito i tanti danni collaterali «il costo» da pagare per sconfiggere il male».

Parole che non faranno piacere a una Serbia dove in questo anniversario la guerra si ricorda nel modo più marcato di sempre, con una protesta degli ultranazionalisti di Sešelj in programma per domani, mappe dei bombardamenti regalate per l’occasione dai tabloid, una mostra “Per non dimenticare”, focalizzata sulle morti di civili, cerimonie ufficiali e persino una grande parata militare, a Nis. Parata che è il segno di reazioni «sempre più pazze» della leadership al potere, ha denunciato la sociologa ed ex leader dell’opposizione a Milosević, Vesna Pesić. All’inizio erano «commemorazioni accettabili», oggi si arriva alle marce militari, in un Paese dove la memoria rimane un ingombrante convitato di pietra. —



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