Benvenuti a Campagnuzza un pezzo d’Istria a Gorizia

Mario Petri, diacono della parrocchia, è uno dei pochi superstiti dell’esodo da Pola: «Nel quartiere c’era tutto e ogni attività era gestita da istriani»
Di Stefano Bizzi

Via Pola, via Zara, via Capodistria, piazza Fiume: la toponomastica ha quasi sempre una sua radice storica. Anche se con il passare degli anni le cose cambiano, come sanno i meno giovani, nel quartiere di Campagnuzza, i nomi delle strade non sono casuali: sono legati all’esodo istriano. «Di istriani nel Villaggio dell’esule oggi ne sono rimasti solo una manciata: credo che si possono contare sulla dita di due mani, ma forse anche meno», nota Mario Petri. Diacono della parrocchia di Campagnuzza, è lui la memoria del quartiere. Per rivendicare la sua identità, all’ingresso dell’abitazione di via Zara, appena sotto il citofono, ha sistemato una piccola targa con raffigurata la capra simbolo dell’Istria. Una targa identica l’ha regalata al suo dirimpettaio. «Non ho mai rinnegato la mia italianità – dice, e per rinforzare il concetto indica anche una moneta da 200 lire affogata nel cemento ai piedi del cancello – ma prima di tutto sono istriano. Sono nato a Pola e anche se quando l’ho lasciata ero piccolo, le cose me le ricordo. Per questo ho uno struggente desiderio di poter ritornare nella mia città: una cosa è scegliere di andarsene, un’altra è doversene andare perché te lo impongono gli altri».

Dopo il trattato di Parigi del 10 febbraio 1947 con cui l’Istria veniva definitivamente assegnata alla Jugoslavia, Petri fuggì dalla sua terra d’origine per rifugiarsi con la famiglia a Gorizia. Come accadde anche agli altri profughi, prima di ottenere una sistemazione definitiva ci vollero degli anni. Dapprima venne alloggiato provvisoriamente nell’edificio che oggi ospita il Comando della brigata di cavalleria Pozzuolo del Friuli, poi in una stanza alle Casermette di Montesanto. L’assegnazione dell’appartamento in quello che venne battezzato Villaggio dell’esule rappresentò la fine dell’esodo, ma non cancellò certo la sua identità. «Non ho paura di perderla – precisa -. Io sono quello che sono e porto avanti le mie tradizioni. Ad esempio, da noi è usanza alla vigilia delle grandi feste preparare il baccalà e questo, a casa mia, si fa ancora».

I ricordi dell’infanzia sono ancora vividi. «Nel quartiere c’era tutto e tutto era gestito da istriani: c’era il macellaio, c’era il panettiere, c’era il barbiere, c’era il calzolaio, c’era la merceria, c’era il sarto e anche il bar Friuli Venezia Giulia...». In ordine sparso snocciola anche diversi nomi delle famiglie che formavano questa comunità nella comuità: «i Valenti, i Miletta, i Buttignoni...». La memoria corre e salta da una parte all’altra seguendo percorsi imperscrutabili: «Al posto degli impianti sportivi, a quei tempi, c’era una spianata. Noi bambini andavamo a giocare lì. Ricordo che ci fu una crisi tra Italia e Jugoslavia e l’esercito schierò su quell’area i cingolati e i cannoni. Nonostante le tensioni internazionali, per noi bambini erano affascinanti». Oggi la presenza degli impianti sportivi, l’ordine e la tranquillità che regnano nel quartiere fanno di Campagnuzza una delle aree residenziali più apprezzate della città. Con il tempo, in quello che è nato per ospitare gli esuli (“Ma noi eravamo profughi, non esuli”, precisa Petri), si sono trasferite famiglie che non hanno nulla a che fare con la tragedia delle popolazioni istriano-dalmato-giuliane. «Ci sono molti militari o rappresentanti della minoranza slovena e oggi siamo un misto di genti».

©RIPRODUZIONE RISERVATA

Riproduzione riservata © Il Piccolo