Bressanutti e l’arte Racconto di una vita dell’eterno ragazzo che dipinge a 96 anni

L’idea della vecchiaia come d’un effimero teatro umano impegnato nell’atto finale è radicata in Aldo Bressanutti, abile rittrattista della minuzia, pittore dall’estro surreale. Eppure sorprende, a 96 anni suonati, la tanta voglia di raccontare la vita che passa e si rinnova attraverso l’arte, per lui sempre figurativa. Bressanutti – latisanense di nascita, ma bisiaco d’adozione – a Monfalcone ha trovato la pace. Nonostante abbia cavalcato il ’900 è ancora lì, nello studio di via Petrarca, per il suo valzer coi pennelli. Non saprebbe farne a meno. Dipingere, del resto, «è come respirare». Il rifugio da una giovinezza tormentata, partita dalla «nascita rocambolesca su un carro di carbone» e interrotta ai campo di lavoro a Ludwigshafen e Mannheim, appena ventenne. Esperienze che ne hanno segnato l’esistenza, ma non soffocato la sensibilità artistica, la capacità immaginifica. Un talento espresso attraverso olii su tavola, disegni, stampe. Perfino racconti. Fino alla nuova mostra “Realtà surreale”, domani a Staranzano.
Si perde il conto delle sue opere, ma ricorda il primo quadro che le fece pensare d’esser artista?
Non era il primo disegno, perché avevo 23 anni. Vivevo ancora Trieste, in subaffitto in via Cadorna, dietro il Revoltella. Il quadro ritraeva il cesso della casa: un cassone, un buco, il coperchio di legno, fogli di giornale. Per me c’era della poesia. La padrona del palazzo, Celestina, era incredula che si potesse fare un’opera su un tale soggetto. Non voleva.
E invece?
Lo feci. Un pergolo a sinistra, la porta schiusa, un foglio coi debiti, 120 mila lire da pagare, il conto del pane. Sullo sfondo le gambe penzolanti di un impiccato.
Un suicida?
Un fatto vero, attinto dalla cronaca locale.
E poi?
Andai dal maestro Sofianopulo, di cui ero amico. Mi disse di mandarlo a una mostra internazionale a palazzo Chiablese, a Torino. Gli dissi: “’Sto cesso?”. E lui: “Xe bel, mandilo”. Nella sala settima fu esposto il mio quadro. Il viaggio andata e ritorno in treno mi costò 10 mila lire. Il quadro, poi venduto, me ne fruttò 40 mila. E quando dissi alla signora Celestina che l’opera era stata appesa a Torino lei mi disse: «Ma cossa, i xe mati?». E io pensavo lo fossero. Ma il fatto mi incoraggiò. Dipingo da quella volta. Solo arte figurativa.
A Staranzano ci sarà anche “Un fiore per Anita”. Anita era sua moglie.
Una quindicina d’anni dopo, tornai in Germania da turista. Attraversavo il Reno, il cui ponte era saltato quando scappai dal campo di concentramento. In treno, immerso nei ricordi, sentivo le urla, il sangue e le bestemmie dei soldati tedeschi in ritirata. Guardavo come in trance fuori dal finestrino e poi davanti a me, dov’era seduto un ragazzo. Questi mi chiese perché stessi fissando le sue mani, ch’erano deformi, con tre sole dita da una parte e due e mezzo dall’altra. Non c’avevo neppure fatto caso. Mi riferì di essere uno dei 60 mila figli di madri assuntrici del Talidomide. Davano il farmaco per rilassarle, nascevano bimbi disgraziati, ma continuavano a svuotare i magazzini per vendere, fare soldi.
Quindi?
In albergo feci i primi schizzi del quadro. A mia moglie, curiosamente, piaceva. Ma l’opera non aveva un nome, così, guardando un orto, aggiunsi la corolla. Lo chiamai: “Un fiore”. Tanti anni dopo, a una mostra in Regione, lei mi ha chiesto di dedicarglielo e così è diventato “Il fiore di Anita”. Però 49 giorni dopo è morta. E io, con Rino Romano, l’ho ribattezzato “Un fiore per Anita”.
Un dolore immenso.
Ero in mansarda a dipingere, verso le 4. La porta della camera aperta, lei rovesciata sul letto. L’ho scrollata per raddrizzarla. Mi è spirata tra le braccia. Una fortuna terribile: è morta senza sofferenza. Io sono rimasto sconvolto a lungo.
Cos’è per lei la pittura?
Un bisogno fisiologico, come mangiare o respirare, ne sento la necessità. Dipingo ancora a 96 anni.
Congratulazioni.
Semmai, condoglianze. Ma non temo la morte. Mi sono già dipinto con la faccia schiacciata sulla tela, i pennelli a terra, la ciabatta scomposta. Forse perché a vent’anni, con un fucile puntato davanti, non ho provato niente.
Che le pare Monfalcone oggi?
Stranamente, che sia un po’ meglio. Noto un po’ di responsabilità in più nell’amministrazione.
Ha votato Altran o Cisint?
Non ho votato, non ci credo. La politica non la capisco.
È religioso?
Sono sicuro che ci sia qualcosa al di là. Anzi sono più sicuro di quello che c’è di là, piuttosto che di qua. Ma non ho una fede particolare.
Pensa che ritroverà Anita?
Oh sì, non vedo l’ora. Mi è capitato di vederla, all’alba, come in un sogno.
Ma arrivato a 96, può puntare a 100...
Allora i la ga con mi: non la me stia a portar pegola (ride, ndr)! Comunque grazie. –
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