Bruno Pizzul: «I telecronisti? Parlano troppo»

È la voce storica del calcio italiano e oggi ammette: «In Italia mancano i giocatori di strada, il talento è sempre più raro»

«Inviato a raccontare una partita di pallone ho dovuto invece dire di 39 morti e di una situazione inaccettabile e dolorosissima». Bruno Pizzul, cormonese doc, milanese di adozione, è stato la voce del calcio italiano per tanti anni. Inconfondibili il suo timbro e l'enfasi con cui ha commentato tante partite. Per lui è impossibile dimenticare la finale di Coppa dei Campioni tra Juventus e Liverpool del 1985.

Come è cambiato negli ultimi anni il ruolo del telecronista?

«È molto cambiato il linguaggio televisivo per immagini - risponde Pizzul -: ora i registi hanno a disposizione un gran numero di telecamere e le utilizzano per confezionare una "good television", con tanti stacchi, frequenti replay, ripetuti primi piani, insistiti stacchi sulle panchine e sulle tribune. Ne deriva una frammentazione di racconto visivo che implica necessariamente un corredo lessicale altrettanto agitato e quasi ansioso. Al solito, ma il problema c'era anche ai miei tempi, i telecronisti parlano troppo e non sempre le seconde voci di esperti o colleghi risultano utili e funzionali».

Come si preparava alla telecronaca?

«Per pigrizia e presunzione non è che mi preparassi molto prima di una telecronaca importante, mi impegnavo un po' di più quando dovevo fare il commento di una disciplina per me meno familiare rispetto al calcio. C'è un rischio: se metti assieme troppe cose sulle squadre e sui singoli giocatori, poi ti viene voglia di dirle e alla fine finisci per parlare della zia di Rivera anziché di Rivera stesso. Meglio raccontare solo quello che avviene sul campo».

Ogni domenica gli stadi sono sempre più vuoti e si verificano sempre più scontri tra polizia e tifoserie. C'è qualche soluzione per riportare i tifosi e famiglie allo stadio?

«Il calcio è un tipico fenomeno sociale e come tale risente inevitabilmente delle storture, delle negatività, della mancanza di valori, della litigiosità tipiche della società in cui si esprime. Questo tuttavia non deve diventare un comodo alibi per giustificare quanto di brutto avviene nel mondo del calcio: lo sport deve recuperare l'orgoglio della propria natura originariamente ricca di valori positivi, occorre una maggior cultura sportiva, anche se da noi le agenzie educative fanno poco per trasmettere e insegnare un modo diverso di vivere la passione sportiva. In termini più concreti, per i mascalzoni che delinquono e vengono individuati ci vorrebbero pene certe e non annacquate come spesso avviene. I bambini allo stadio sono una bella cosa, anche se dimostrano subito di essere non appassionati di calcio ma tifosi già sul becero».

Tra i vari giocatori che ha incontrato c'è uno che l'ha colpita non solo per le sue doti sportive ma anche per il carattere fuori dal campo?

«I rapporti personali con i calciatori di anni fa erano più frequenti e cordiali di quanto non avvenga oggi. Dino Zoff è un amico di lunga data, così come i molti ex calciatori friulani, ma anche i vari Rivera, Corso, Mazzola, Suarez, Pecci e tanti altri restano nel novero di amici cari e non solo perché erano bravi a tirare calci al pallone».

Gli stranieri ormai sono i "padroni" del nostro campionato. Esiste un progetto per valorizzare i nostri vivai?

«Il progetto esiste o, meglio, si garantisce che esista. In realtà la situazione dei settori giovanili non è positiva, se è vero come è vero che un problema molto grosso sta nell'elevatissima percentuale di abbandono precoce da parte dei ragazzi. Molti cominciano a giocare a calcio e dopo un po' smettono perché non si divertono e vengono trattati come professionisti quando sono ancora in verde età. Da quando ci sono le scuole-calcio non esce più un talento, non si dà libero sfogo all'estro, alla fantasia, all' istinto, si confezionano tanti giocatorini fatti con lo stampino, tutti uguali, magari senza tanti difetti ma con pochissimi pregi. Sintomatico quel che si dice: al calcio italiano mancano i giocatori di strada. E poi, è brutto dirlo, ma con la pancia piena si fa poca strada nello sport. Quanto ai troppi stranieri, è vero che sono tanti e non tutti campioni, ma se giocano loro vuol dire che sono migliori dei nostri».

Come è visto il calcio italiano all'estero?

«Ci rispettano e ci temono molto per la nostra grande tradizione. I calciatori italiani sono però considerati poco leali, simulatori e portati alla lamentazione continua. Nessun dubbio comunque che il nostro calcio goda ancora di buona considerazione, anche se afflitto da difensivismo acuto».

Oggi sembra che nel cuore dei giocatori il dio denaro abbia preso il posto dell'amore verso la propria maglia. Ormai esistono solo poche bandiere come Totti. Che ne pensa a riguardo?

«Il processo di mercificazione del prodotto calcio ha generato tutta una serie di problematiche, impoverendo gli aspetti tecnici e dilatando l'importanza dei fattori economici. In effetti diventa discutibile continuare a definire sport il calcio di vertice superprofessionistico. Che i calciatori di oggi siano più attenti ai benefici economici che all'amore per una maglia è pressoché inevitabile».

In Italia ci si interessa a certi sport solo se i nostri atleti vincono o se la competizione avviene nel nostro Paese come è successo per i mondiali di pallavolo femminile. Perché questo non succede per il calcio?

«Non è poi così vero che il calcio attiri sempre e comunque tanta gente: ai mondiali o agli europei di calcio altrove gli stadi sono sempre pieni, da noi ci sono state partite con qualche centinaio di persone sugli spalti. Il fatto è che noi non siamo appassionati di calcio, siamo tifosi, ci interessa solo la nostra squadra, nel calcio magari anche quando perde, negli altri sport solo se vince. Ma, diciamolo ancora, è questione di cultura sportiva, merce rara dalle nostre parti».

Giorgia Godeas

III A Liceo Scientifico

"Duca degli Abruzzi"

Riproduzione riservata © Il Piccolo