Caso Alina, 4 poliziotti verso il giudizio

Il pm de Bortoli chiede il processo per il capo dell’ufficio immigrazione Baffi e 3 agenti per il suicidio in commissariato
Di Maurizio Cattaruzza
FOTO BRUNI TRIESTE 31 01 09 OPICINA-FURTO:IL COMMISSARIATO DI OPICINA
FOTO BRUNI TRIESTE 31 01 09 OPICINA-FURTO:IL COMMISSARIATO DI OPICINA

L’inchiesta riemerge a quasi tre anni dal suicidio di Alina Bonar Diaciuk, morta per disperazione nella camera di sicurezza del commissariato di Opicina. Una fine orrenda. La Procura della Repubblica di Trieste ieri mattina ha notificato l’avviso di conclusione delle indagini condotte dal pm Massimo De Bortoli e la richiesta di rinvio a giudizio per l’allora capo dell’ufficio immigrazione della questura Carlo Baffi (ora all’economato della caserma di San Sabba), e di altri tre agenti coinvolti in questa brutta storia. Dovranno comparire a breve davanti al gip Laura Barresi ma con i pesanti capi d’imputazione che si portano appresso è chiaro che, salvo sorprese, si va verso il processo. Carlo Baffi è accusato di sequestro di persona aggravato mentre gli altri tre poliziotti dovranno rispondere di “violata consegna e morte come conseguenza di altro reato”. «Nessuna volontà di insabbiare il caso, stiamo solo lavorando in silenzio a un’indagine complessa», aveva spiegato alcuni mesi fa il procuratore capo Carlo Mastelloni dopo l’appello disperato della madre di Alina la quale temeva che l’inchiesta fosse stata stoppata. Alla fine l’inchiesta, divisa in due tranches, ha visto la luce. In quelle carte del pm De Bortoli sono state definite le responsabilità di chi ha spinto (involontariamente) alla morte la giovane Alina. Era appena uscita dal carcere del Coroneo dove aveva scontato una pena per favoreggiamento dell’immigrazione.

Era il 14 aprile del 2012 ed era anche un maledetto fine settimana. Se fosse stata scarcerata per esempio di lunedì probabilmente sarebbe ancora viva. Una tragica casualità. Questa non è una storia di sevizie nè di soprusi. Non esiste un cattivo tenente, siamo piuttosto davanti a un “arresto clandestino” (da qui l’accusa di sequestro di persona) di una libera cittadina, a un evidente abuso di potere. Quando Alina è stata scarcerata, fuori dalla prigione la attendeva una pattuglia dell’ufficio immigrazione. L’aereo per rimpatriarla, con un decreto di espulsione, sarebbe partito da Bologna appena il lunedì. L’hanno portata al commissariato di Opicina anche per il timore che potesse dileguarsi. Le indagini hanno poi appurarato che era una prassi parcheggiare gli stranieri scarcerati. Sono emersi altri 49 casi ma fino a quel giorno era sempre andata bene.

Alina, invece, era in uno stato di prostrazione psichica. La spaventava un’altra detenzione ma nel contempo anche il suo rientro in patria dove temeva di subire ritorsioni da qualche organizzazione criminale. La situazione era resa ancora più difficile della sua scarsa conoscenza dell’italiano. Così il 16 aprile la donna è stata trovata priva di vita nella cella di sicurezza. Si era impiccata con la cordicella di una felpa rimanendo agonizzante per una quarantina di minuti. Il commissariato è dotato di telecamere ma nessuno si è accorto del tragico gesto di Alina. Nessuno vigilava. Ma soprattutto non doveva essere lì, come ha presto scoperto il pm De Bortoli che ha spezzato l’inchiesta in due tronconi. Rimane aperto un altro procedimento penale a carico di altri 4 polizioti dell’ufficio immigrazione per tutti gli altri episodi di sequestro di persone prese in custodia senza un nuovo provvedimento del magistrato. In una nota il Procuratore della Repubblica, Carlo Mastelloni, esprime «ferma fiducia nell’istituzione della Polizia di Stato, dedita al continuativo controllo del territorio e alla tutela quotidiana del cittadino, con sacrificio quotidiano dei singoli agenti». Resta il dolore di una madre che ogni anno si sobbarca un lungo e costoso viaggio dall’Ucraina per portare un fiore sulla tomba della sua Alina.

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