C’è una storia dietro a ogni profugo e ci dice che lasciare casa è un dolore

di FLORINDA BARTOLI *
Le differenti culture spesso si trovano impossibilitate a comunicare tra loro, generando conflitti e contrasti, talvolta anche violenti, per puri fraintendimenti. Lo scontro generalmente avviene tra le fasce più basse della popolazione, in quella che oggi chiamiamo “guerra tra poveri”. La crisi economica del 2008 e i suoi strascichi hanno creato una società fragile e dalle poche certezze, spaventata e insicura, che si sente minacciata dalle recenti ondate migratorie. L’Europa non è ancora arrivata a una politica comune per l’accoglienza dei migranti in quanto gli stati membri non riescono a mettere da parte gli interessi nazionali. I paesi più vicini alle zone calde dell’attuale situazione geopolitica, come l’Italia o la Grecia, sentono la necessità di un sistema d’accoglienza e integrazione nuovo, che non pesi unicamente sulle loro economie, e si sentono abbandonati dall’Unione, nonostante i numeri dimostrino che anche nazioni come la Germania e l’Inghilterra accolgono numerosi migranti.
In questo clima di sfiducia e tensione generale si inseriscono buffoni e pseudo politici, sciacalli che, nella loro ignoranza, aizzano le masse contro coloro che “ci rubano il pane” al grido di “tornate a casa vostra”. A casa loro.
“Casa mia ha un odore tutto suo, un profumo di legno e pane, di ebano e lievito. Mi fa sentire bene”. Siete a casa, al sicuro. Riposo.
Nella mia esperienza ho imparato che dietro ogni persona, dietro ogni individuo c’è una storia, e che conoscere quella storia, quelle centinaia, migliaia di storie, può aiutare a capire. Può aiutarci a comprendere il dispiacere di lasciare la propria terra, la propria casa e, spesso, la propria famiglia, Noi esseri umani siamo animali, sì, ma potremmo anche definirci piante. Nel nostro nascere e crescere in un luogo mettiamo radici, radici che assorbono gli usi e i costumi del nostro paese, i modi di fare, di gesticolare, i canti popolari, le luci delle nostre città. Radici così forti, così profonde nel terreno fertile della nostra individualità, che strapparle è quasi un dolore fisico.
“Casa mia è stata bombardata il primo giorno di primavera. Ricordo che il cielo era terso e pregno dell’odore dei pruni. Poi tutto divenne grigio e acre. Odore di fumo denso, polvere e ricordi”. Dovete andarvene. In marcia. Noi italiani lo sappiamo, anche se fingiamo di essercene dimenticati. Sappiamo cosa significa migrare. Conosciamo la sofferenza del viaggio, la difficoltà dell’integrazione, la sensazione di smarrimento.
Il sentimento di nostalgia per una terra espropriata, fino a ieri innaffiata da acqua fresca e che oggi succhia, avara, assetata e inasprita, sangue e lacrime, è qualcosa di non troppo lontano nella storia dell’Europa. Solo che abbiamo dimenticato. Perché dimenticare è più comodo. Cancellare il passato, non vedere la sofferenza, è più facile. “Casa mia? Oh, ma casa mia io l’ho sempre avuta. Lo vede quel palazzo? È qua da sempre, e per sempre ci resterà”. Sicurezza e incanto
Ma oggi dobbiamo svegliarci e ricordare. C’è il bisogno di ricordare. Il mondo ci sta chiedendo di farlo. Di ricordare. Di conoscere. Di dialogare. Di costruire una “società complessa” e trovare il giusto equilibrio tra integrazione e mantenimento della propria cultura. Perché la cultura è ricchezza, di qualsiasi tipo essa sia. Per una volta dovremmo aprire le porte di casa nostra e far respirare l’odore di legno e pane anche a chi ha nelle radici, come ricordo indelebile, il fumo della morte. E poi posare a terra la prima pietra per una nuova dimora. Una dimora più grande, aperta a tutti, ricca. “Casa mia ha l’odore di chiacchiere e discorsi in mille lingue. Ha odore di hummus, pizza, curry e baklawa. Ha odore di cotone e pelle. Casa mia ha odore di mondo”.
* V M Liceo Petrarca
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