Com’è difficile la vita del musicista classico nell’Italia di oggi

Le amare riflessioni dell’arpista Tatiana Donis e di Elia Vigolo «Sempre meno fondi, produrre tanto ma costare poco»

«Trovare lavoro in ambito artistico al giorno d'oggi non è un percorso facile. Nonostante si continui a sostenere che la cultura sia il cibo dell'anima i recenti avvenimenti legati alla musica ed all'arte in generale non fanno ben sperare per un futuro.»

Così si è espressa Tatiana Donis, musicista e insegnante d’arpa triestina, aggiungendo che il numero di musicisti in Italia senza un lavoro stabile è aumentato esponenzialmente quanto sono diminuiti i fondi attribuiti dallo stato al Fus (fondo unico per lo spettacolo).

Le fondazioni liriche stanno chiudendo, i teatri fanno fatica a programmare una stagione, le scuole di musica si ritrovano ogni anno con meno fondi disponibili e le associazioni devono combattere con i tagli economici imposti dallo Stato.

In Italia in passato veniva attribuita maggiore importanza alla musica e alla cultura e coloro che lavoravano in questi ambiti venivano più considerati. Ora i musicisti cercano sbocchi all’estero. «Potremmo parlare di fuga dei talenti oltre che di cervelli», afferma Tatiana.

Altra “novità” che ha portato grandi disagi a chi sta cercando di entrare nel mondo dello spettacolo è la riforma delle Accademie e dei Conservatori italiani. Approvata nel 2012, ha allungato i tempi di studio per gli aspiranti musicisti, iscritti al Conservatorio e privatisti. «In un sistema scolastico come il nostro è impensabile partire dal tetto senza creare le fondamenta» , dice ancora Tatiana.

La maggior parte dei musicisti sostiene che la riforma abbia portato in una situazione in cui, soprattutto gli allievi meritevoli, vengono penalizzati.

Nei teatri la situazione non è poi tanto diversa. Stando alle considerazioni di Elia Vigolo, musicista d’orchestra al Verdi di Trieste con 34 anni di attività alle spalle, il tempio della musica triestina ha subito varie modifiche nel corso degli anni. «In passato – racconta – si lavorava meglio, sia per i ritmi, che per la qualità del lavoro svolto, ma soprattutto per l'ambiente. Il clima era amichevole, cordiale, tutti cercavano di dare tutte le proprie energie per ottenere l'applauso del pubblico anche se non c'era un ritorno economico. La cosa importante era fare bella figura per l'orgoglio (ognuno per ciò che poteva) del Teatro, che considerava la propria casa e la propria famiglia, forse e spesso più di quella vera...»

«Oggi invece - continua - è solo una azienda che deve produrre. E se non produce deve ridurre i costi o chiudere. I dipendenti sono dei I dipendenti sono dei numeri, io sono il 3.585 e devo costare il meno possibile, lavorare il più possibile e pesare il meno possibile sul bilancio della fondazione. Se suono bene o male non importa niente a nessuno. Se oggi si suona Verdi, Puccini, Wagner o Allevi non importa ancora niente a nessuno. Si devono solo produrre note e non pensare nè parlare... io sono pagato per suonare, non per parlare o pensare...» ci spiega Elia.

I cambiamenti sono dovuti alle ristrettezze economiche, ai tagli e allo stress che soffocano l’entusiasmo dei dipendenti. Un ruolo importante lo gioca anche il popolo italiano, sempre più disinteressato al teatro, sempre meno propenso a prendersi del tempo e sedersi in platea, sempre più occupato a risparmiare. La crisi economica è la causa principale di questa disfatta.

Dice ancora Elia: «A tutti piacciono i Rolex, la Ferrari, Armani, certo ci sono anche cose più sobrie e meno impegnative, però difficilmente si rinuncia all'Iphone, all'ultimo tv led, così come ai cantanti pop leader del momento... se si fanno degli spettacoli di alto livello, artistico ed economico le persone si interessano, se si fanno delle cose dozzinali che mirano a produrre arte di livello zero come i vestiti cinesi a 50 cent la gente si disinteressa. Tutto ha un prezzo».

Eva Skabar

Classe 4.a C

Liceo Prešeren

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