Da Buie a Mauthausen L’inferno di Maria, ostinatamente italiana e incapace di odiare

Dai diari raccolti 75 anni dopo dal figlio Oscar, emerge la storia di Papo: antifascista, deportata, tradita dal comunismo titino ed esule a Trieste 

la storia



Maria Papo, italiana d’Istria, nasce l’8 ottobre 1915 a Buie, in Austria. Ventisette anni e due conflitti mondiali più tardi si unisce ai «ribelli» di Tito. È accanto a sloveni e croati contro il comune nemico nazifascista: per questo è deportata ad Auschwitz e poi a Mauthausen. Vede la Gorgone negli occhi. E nel giugno 1945 torna a casa, ora amministrata dalla Jugoslavia. Si rifà una vita, ma le promesse di quella lontana primavera sono già macchiate di tinte oscure, quando nel 1965 fugge a Trieste con i familiari. La loro odissea prosegue con i campi profughi e l’ostilità dei connazionali d’oltre confine, che li considerano «slavi» in senso dispregiativo, venuti a rubare il lavoro.

Della vicenda oggi rimangono un resoconto scritto dalla donna dopo la Liberazione; una mole di documenti emessi dagli Stati jugoslavo e italiano; la testimonianza vivente del figlio, Oscar Antonini, nonché le memorie a lui affidate oralmente dalla madre. Materiali rimasti inediti in tutto per 75 anni. Nel 2020 Oscar ha scelto di rompere il silenzio della dimensione privata perché «le svastiche sono ricomparse sui muri. Spero la storia di mia madre serva da monito per tutti quelli che non hanno rispetto della dignità e della vita altrui».

Il titolo del manoscritto di Maria è: «Il mio destino (scritto 1945) agosto 1942-nov. 1943 e di mio marito Guerrino». Sono tre pagine di quaderno a quadretti, riempite di inchiostro blu. Nel 1942 Maria abita a Sanvincenti (Pola) e suo marito lavora nella «miniera in Arsia. Così cominciò la collaborazione con i partigiani, chiamati ribelli».

I due tornano a Buie per organizzare «gruppi segreti» e poi «presidi». La svolta arriva con «la caduta di Mussolini, dopo l’8 settembre 1943. A Buie fu formato un comando italiano locale, uno croato, uno sloveno. Così ci unimmo a loro, arruolati nel battaglione. Io cuoca e porta ordini, mio marito soldato, abbiamo disarmato carabinieri e finanza, lasciato liberi i prigionieri. Verso la fine di ottobre arrivò a Buie la colonna tedesca». La ritirata è «impossibile. Eravamo circondati da tedeschi e fascisti. Con il secondo rastrellamento ci catturarono». I coniugi sono trattenuti nel carcere locale, poi in quello di Pirano e quindi al Coroneo di Trieste. Qui, tra «interrogatori e bastonate», i loro destini si dividono: «Da una parte le donne, dall’altra l’uomini. E da quel giorno non vidi più mio marito».

Il racconto in realtà non si ferma al ’43 ma prosegue con l’esperienza nei lager, la rasatura dei capelli, il tatuaggio del numero sul braccio sinistro. Nelle «baracche» di Auschwitz si dorme in 12 su un pagliericcio. È pieno di insetti. La mattina presto e la sera c’è l’appello, per cui bisogna «uscire nude in pieno inverno. Ci frustavano con una gomma piena di filo d’acciaio». Le prigioniere subiscono «iniezioni sulla schiena per esperimenti», che generano un «grosso brufolo pieno di pus». Maria non lo mostra a nessuno, perché sennò per far uscire il pus te lo incidono e ti prendi il tetano: «Ho visto la mia coetanea morire». Si ammala comunque di pleurite, tifo e scabbia: la salva, di nascosto, un’infermiera ebrea. Le prigioniere politiche a loro volta riescono a far scappare delle donne ebree. Per punizione sono poi costrette a stare ore e ore nude sotto la neve, tenendo le braccia alzate con delle grosse pietre in mano: chi cala le braccia è frustata o colpita con i calci dei fucili. Un’altra volta tutti i bambini sono strappati alle madri, con il pretesto di spostarli in un asilo: «Purtroppo quella notte di orrore il camino fumava e lì sono finiti quei poveri innocenti». Se Maria non finisce a sua volta in crematorio, è perché qualcuno ha pietà di lei.

Le schiave in seguito sono trasferite nella fabbrica di munizioni di «Kirtemberg, vicino Vienna» e quindi a Mauthausen. Quando arrivano gli americani, il 5 maggio 1945, Maria pesa 36 chili. Il 14 giugno è «a casa, a Buie d’Istria», mentre «mio marito è morto a Dachau». Di Guerrino rimarrà un ritratto appeso al muro, nelle case dove Maria crescerà i figli avuti con il nuovo compagno. Quando il piccolo Oscar chiederà al papà perché non ne sia geloso, questi risponderà che non è possibile esserlo, poiché è giusto ricordare quella persona.

Il dopoguerra è testimoniato anche dalla burocrazia. Tra le numerose carte spicca un certificato provvisorio d’identità per internati civili - datato Mauthausen, 25 maggio 1945 - dove Maria è definita di nazionalità «yugoslav (in inglese, ndr)». Vicino vi è aggiunto, con la grafia della donna: «Italiana». «Ci teneva a essere italiana – adesso parla di nuovo Oscar –. Si infuriava pure quando, da esule, sui nuovi documenti forniti da Roma le scrivevano “E.E.”, “Escursionista Estero”. Se abbiamo atteso vent’anni, prima di lasciare la zona B, è perché mio padre nutrì fino all’ultimo la speranza che le cose sarebbero cambiate. Quando si rese conto che così non era, prese una corriera per Trieste, dove c’era già parte della famiglia. Li raggiungemmo una settimana dopo».

Oscar è bambino: «Ricordo solo che siamo andati via dall’Istria di notte, di nascosto». Nel 1966, e cioè un anno dopo l’inizio del suo Esodo, Oscar si trasferisce con i familiari in un campo profughi ricavato nelle ex carceri di Cremona: «Vivevamo in una cella, separata solo con delle tende, e poi in quattro in un monolocale». In quegli anni una maestra, a scuola, gli rinfaccia che uno scarabocchio da lui fatto sul quaderno è visibilmente «slavo».

La farsa dopo la tragedia. «Tra il 1968 e il ‘69 siamo rientrati a Trieste, dapprima in una soffitta in viale XX settembre. Poi in via Vignola, via Tigor - di nuovo ex caserma - e quindi nelle case popolari di piazza Foraggi. Mia madre è rimasta là fino al giorno che è morta, serenamente, il 7 marzo 1998. Ma come dire, la sua fu una vita non tanto tranquilla, dopo quel che ha passato in guerra». Sui necrologi è ricordata come Maria Papo Potleca-Antonini: i cognomi dei due uomini che ha amato, oltre al suo.

A proposito della guerra, «vorrei capire perché, quando le chiedevo che cosa provasse verso i suoi aguzzini, mi diceva che alla fine li aveva quasi perdonati e che di atrocità ne erano state fatte de ambo le parti. Sicuramente era per non trasferirci risentimenti né odio. E anche, forse, per mettersi l’anima in pace. Quanto segue può far capire il carattere di quella Donna (con la D maiuscola nella lettera inizialmente scritta al Piccolo da Oscar, ndr). A guerra finita, a Buie giunse in vacanza una famiglia di tedeschi. Volevano visitare il campanile perché, era stato detto loro, da là il panorama era meraviglioso. Le chiavi le aveva mia madre: mentre apriva la porta, le si scoperse il numero tatuato sul braccio. La coppia vedendolo rimase impietrita. Lei per rompere il silenzio disse: “Dai su, ormai son cose passate, non fateci caso”».

Maria, italiana di credo socialista, in tal senso tradita due volte dal comunismo jugoslavo, per tutto il Novecento si rifiuta di cadere nel tranello dell’odio etnico. La sua è una scintilla di memoria che rende giustizia alla complessità della storia, senza prestare il fianco a strumentalizzazioni né generalizzazioni. «Quando in casa parlava dei lager nazisti, noi provavamo una rabbia incontenibile. Lei che li aveva vissuti, invece, voleva andare oltre. Questo non significa che abbia mai rinnegato il suo antifascismo. Anzi. Ecco perché tacere la sua storia, oggi che la senatrice Liliana Segre è costretta a vivere sotto scorta e saluti a braccia tese si alzano nuovamente in aria, significherebbe farla morire per la seconda volta». —



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