Da Roma a Tokyo con un aereo a elica nel 1970 tra cicloni, tempeste di sabbia e jet da guerra

LA STORIA
«L’aereo precipitava a vite e il pilota era svenuto. L’ho svegliato a ceffoni». Ognuno di noi serba in cuore il ricordo del proprio viaggio della vita. Ma quasi nessuno ne ha uno avventuroso come Giancarlo Zane, veneziano di nascita e triestino d’adozione, che il 15 ottobre ’70 partì da Fiumicino per Tokyo, con il pilota Mario Panvini Rosati, a bordo di un piccolo aereo a elica, un Siai S.205 battezzato “Topo Gigio”. Ai tempi Zane, classe ’35, lavorava come fotoreporter e cineoperatore Rai. Venne contattato da Panvini Rosati allo scopo di ripetere, in occasione del 50.mo anniversario, l’impresa di Arturo Ferrarin, il pilota che nel 1920 aveva percorso per primo la rotta Roma-Tokyo sotto gli auspici di D’Annunzio. Fotoreporter e pilota, uno solare ed espansivo, l’altro burbero e pratico, si conobbero a quello scopo. Fecero un primo volo di prova, fino in Etiopia. Poi partirono: avrebbero imparato a lavorare come una squadra affiatata. L’impresa richiese un mese esatto. Ricorda Zane: «Quando il pilota mi contattò mi parve una bella idea ripetere le gesta di Ferrarin. Pensavo sarebbe stato un viaggio interessante, ne venne fuori qualcosa di molto più intenso: un’avventura bellissima e terribile in cui siamo stati fortunati a portare a casa la pelle». Di quel mese Zane conserva una valigia piena di foto, ritagli di giornale, pagine ingiallite di diari di viaggio. Vi sono annotate tutte le vicissitudini prima di toccare il Sol Levante. «Facemmo tutto a nostre spese».
Traversate di mari e deserti, cicloni e tempeste di sabbia, paesi in guerra. Il racconto sembra uscito dalle pagine di Hugo Pratt. E inizia con una disavventura: «Il secondo giorno di viaggio, andando a Bari, volavamo nella nebbia. All’improvviso ci è comparsa davanti una montagna. Ho lanciato certe urla che penso si sentiranno anche leggendo. Cabrando il pilota è riuscito a scavalcarla. Sarebbe stato brutto concludere il viaggio appena partiti».
Spostandosi a Oriente le cose si fanno ancora più avventurose: «In Birmania siamo stati sorpresi da una tempesta. La tromba d’aria ci ha intrappolati nel suo cono, portandoci a cinquemila metri di quota per poi espellerci. Abbiamo iniziato a precipitare in avvitamento, il pilota era svenuto. L’ho preso a schiaffi fino a svegliarlo, e lui è riuscito a riportarci in equilibrio. Il tutto sarà durato una decina di secondi». I due giovani toccano con mano la Storia: «A quei tempi in Indocina c’era la guerra. Sorvolando il confine fra Cambogia e Vietnam del Sud siamo stati seguiti da tre jet americani. Per fortuna siamo riusciti a comunicare che non eravamo un aereo militare e siamo atterrati a Saigon». I piloti Usa gli confesseranno poi di non averli abbattuti soltanto perché erano troppo lenti.
Carambolesco anche l’arrivo a Taiwan: «Siamo arrivati a Taipei dopo aver sorvolato un bel po’ di mare, avevamo quasi finito il carburante e nei dintorni c’era solo una pista americana. Alla radio ci hanno detto che non potevamo atterrare lì, e noi abbiamo risposto che non potevamo fare altrimenti. Quando siamo scesi dall’aereo ci hanno presi e ci hanno chiusi in albergo. Il giorno dopo ci hanno caricato sull’aereo dicendoci: “Andate e non fatevi rivedere più”».
Arrivati in Giappone, i due giovanotti trovarono un benvenuto inatteso: «Aldo Moro era lì in visita con una delegazione di imprenditori in quei giorni, ma volle incontrarci per “premiare lo spirito avventuroso italiano”». Giancarlo Zane è un uomo socievole ma modesto - «Non amo stare alla ribalta, sono stato sempre dietro all’obiettivo» - ma il suo racconto di un mondo scomparso, gli ultimi scampoli dell’Asia post-coloniale, brilla di una luce irresistibile. Quella delle grandi avventure. —
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