Da Staranzano a Londra per fare la guerra ai pirati

di Laura Borsani
Nome: Massimo. Cognome: Cauci. Età: 40 anni. Segni particolari: ha lasciato la Bisiacaria, dove tuttora risiedono la madre e i parenti, per avventurarsi in una vita in “prima linea”. È la trincea del security-consultant: oltre 10 anni nella Legione straniera francese, oggi primeggia nel mondo con la sua società di consulenza per la sicurezza con sede a Londra. Una carriera costellata di imprese: ha protetto un oligarca russo ospite in Sardegna, famiglie reali saudite e abasciatori. Ha anche assicurato la sicurezza a una collezione Fabergè a Milano. Il manager vive a Brighton, in Inghilterra, dal 2006. Tre o quattro volte l’anno torna a Staranzano. Cosa l’ha spinto a scegliere una vita “ad alta tensione”? «Lo spirito di avventura e l’interesse per la disciplina militare - spiega -. La monotonia non fa per me. Ho sempre avuto questa passione, fin da ragazzo». Il servizio di leva a Udine era acqua fresca: «Volevo entrare nei “parà”, ma a quei tempi, erano gli anni ’90, i posti erano limitati. Da qui la scelta di arruolarmi nella Legione straniera». A Marsiglia il reclutamento. Massimo ha conosciuto la selezione estrema. «Ho ricevuto l’istruzione di base tra i Pirenei francesi - racconta -. I primi 4 mesi furono molto duri, eravamo isolati in una fattoria. Dormivamo 2-3 ore a notte. In marcia per 20 chilometri e arrivati alla base la mattina, altri 10 chilometri di corsa. In canottiera in mezzo alla neve. In questo periodo la diserzione raggiunge il 40%». Ha imparato di tutto: perfetta conoscenza delle armi, lingua francese, fino alla topografia e all’addestramento fisico, compreso il combattimento corpo a corpo, brevetto “commando” . Quotidiane “simulazioni di guerra” per dominare stress e pressione. Per 350 franchi al mese: «Una miseria. Oggi tutto è cambiato: migliori condizioni economiche ma anche minore rigore».
Massimo aggiunge: «C’è chi arriva nella Legione per sfuggire a pendenze penali, chi per delusioni d’amore. Ricordo un ragazzo italiano lasciato dalla fidanzata: piangeva costantemente, è durato tre giorni». Dopo 4 mesi la consegna del “kepiblanc”, il “cappello del legionario” che decreta l’ingresso nella “famiglia”: la Legione: «Sono iniziati 5 anni di contratto nel reggimento: i primi 2 anni e mezzo fui assegnato alla Cavalleria di ricognizione a Orange». Niente passaporto, niente auto, vietato sposarsi. Uscite rigorosamente in divisa. Paga: 900 franchi. Nel reggimento altro giro di vite: “training psicologico” sotto stress e addestramento continuo. In mezzo a compagni di ogni estrazione sociale e nazionalità: «Sei sottoposto a un sistema gerarchico molto crudo, nonnismo compreso. La perfezione è un obbligo. Se sgarri sono pene corporali e la prigione interna. In cella ho vissuto 10 giorni di inferno». Poi le operazioni all’estero: «A Tahiti ero preposto alla sicurezza marittima e del sito nella base nucleare francese di Mururoa». E ancora il Ciad, il Sudan, Gibbuti. Nel Congo dilaniato dal colpo di Stato, era il ’97, ha strappato i civili francesi dalle violenze delle fazioni: «Con i blindati andavano a recuperare le famiglie nelle loro case per farle rimpatriare. Abbiamo visto di tutto, violenze inaudite e cadaveri». Massimo ha concluso la carriera militare come sergente istruttore sulle montagne vicino ad Avignone. Dopo oltre 10 anni di “trincea”, è passato al servizio privato. Nel 2006 debutto in Burundi, ingaggiato da una società inglese, dove Massimo ha garantito per un anno la scorta a un ambasciatore della Comunità europea: «Eravamo un team di 6 persone, vivevamo in casa dell’alto funzionario per proteggere l’intera famiglia. L’ambasciatore gestiva i fondi europei, in una zona all’epoca messa a ferro e fuoco dalla guerra civile. La notte, dalle colline di quella cittadina sul lago partivano i colpi di mortaio. Le rappresaglie erano all’ordine del giorno». L’ultimo incarico di protezione marittima l’ha espletato su una nave italiana, una “cable layer” per l’installazione di cavi in mare: «La società per la quale lavoravo ci inviò in missione senza istruzioni e adeguate attrezzature. Assieme a un collega organizzammo tutto da soli. Lungo la rotta, qualche miglia davanti noi, in direzione Suez, una nave, la “Long Champ”, fu attaccata e presa dai pirati. Bastava un minimo ritardo e le vittime saremmo stati proprio noi».
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