Dalle celle in Risiera ai binari di Auschwitz l'incontro senza filtri con il male assoluto

In pullman verso la Polonia con gli studenti di Galilei e Dante-Carducci. «Nessun libro di storia può restituire le emozioni che ti investono qui» 

TRIESTE Il ritrovo è fissato all’ora del tramonto. L’umidità si fa sentire tra le celle dell’ex Polizeihaftlager, istituito nella Risiera di San Sabba durante l’occupazione nazista di Trieste. La luce dei lampioni getta sul piazzale le lunghe ombre dei corpi degli studenti che, a decine, animano il monumento in quest’orario insolito. È da qui che parte il viaggio verso la Polonia di una novantina di ragazze e ragazzi dei licei triestini Galilei e Carducci-Dante e del Leopardi-Maiorana di Pordenone. Una partenza anche simbolica, la loro. La Risiera rappresenta infatti la prima tappa di un tour della memoria che ha come altro suo estremo il complesso di Auschwitz-Birkenau.

La prima tappa

Dopo una notte passata in corriera, l’indomani il gruppo si risveglia a Cracovia. Durante la Seconda guerra mondiale molti dei deportati furono costretti a intraprendere lo stesso itinerario sui treni della morte, in più e più giorni. L’ex fabbrica di Oskar Schindler, a Cracovia, oggi ospita un museo. I fatti narrati nel capolavoro di Steven Spielberg “Schindler’s list” si sono svolti all’interno di questo edificio, tra queste strade, che facevano parte del Governatorato generale insediato dal regime nazista nella Polonia occupata. Il 13 marzo 1943 nel distretto di Podgórze iniziò la liquidazione del ghetto: il rastrellamento finale con cui i nazisti, nel giro di due giorni, assassinarono circa 2mila persone e deportarono le rimanenti nei campi di Plaszów e di Auschwitz-Birkenau. Gli studenti vi arrivano nel giorno del 76esimo anniversario di quei crimini, di cui oggi rimane poca traccia.

Il muro che impediva alla popolazione di uscire è quasi del tutto scomparso: ne restano due minuscole sezioni, circondate da appartamenti. Su una di queste è affissa una targa, sopra la quale una mano anonima ha deposto un fiore fresco.

la testimonianza

Nell’attuale sede della Comunità ebraica di Cracovia i giovani sono accolti da Zofia Radzikowska, che nel ’43 era una bambina. Sua madre salvò se stessa e la figlia dalle persecuzioni antiebraiche facendo letteralmente documenti falsi. Il padre invece morì a Birkenau. «Ragazzi, non guardatevi indietro - dice Zofia, in inglese, alle scolaresche italiane -. Dovete ricordare, ma guardando sempre avanti. Voi siete il futuro». Lo sgomento inizia a serpeggiare tra gli studenti. Più tardi, a cena, un docente risponde alle loro domande esponendo in maniera dettagliata le ragioni storiche, economiche, sociali e culturali della Shoah. Una diciottenne commenta: «Sì ma io continuo a non capire. Non riesco a mettermi nei panni dei nazisti, né a comprendere che cosa potesse passare loro per la testa, mentre commettevano quei crimini». Per gli studenti risulta impossibile immedesimarsi negli aguzzini e, tutto sommato, lo sforzo nemmeno vale la pena. È più utile prendere atto del fatto che Auschwitz e gli altri campi nazisti pongono di fronte alla manifestazione del male assoluto: la pianificazione dello sterminio di milioni di persone, eseguito in maniera intenzionale e industriale. Un evento che non ha uguali nella storia europea, messo in atto da uomini «banali», secondo l’interpretazione della filosofa Hannah Arendt.

l’impatto con auschwitz

La visita ad Auschwitz prende un’intera giornata, per un totale di sei ore. Nessuno fiata: regnano un silenzio assordante, un senso di assurdità e di vuoto. Uno degli aspetti più impressionanti di Auschwitz sono le dimensioni. Il complesso si compone di tre campi principali: Auschwitz I, Auschwitz II-Birkenau e Auschwitz III-Morowitz, dove fu detenuto Primo Levi, e che però oggi non esiste più. Solo Birkenau ha una superficie di 1,4 milioni di metri quadrati, vale a dire 190 campi da calcio: «Da qualunque punto io mi guardi attorno posso vederne l'inizio ma non la fine», commenta Marc Snidersich del Galilei. All’interno dei “block” di Auschwitz I sono esibiti gli oggetti sequestrati ai prigionieri: montagne di stoviglie, scarpe, valigie e così via. Segno che venivano illusi di poter uscire vivi: prima di entrare nelle camere a gas i detenuti ricevevano addirittura delle saponette, affinché pensassero di doversi fare la doccia. Una teca di vetro racchiude gli scalpi di 40 mila donne: quelli che non fecero in tempo a essere impiegati dall’industria tessile tedesca. L’elenco dei dettagli macabri potrebbe continuare a lungo. All’uscita qualcuno acquista un libro al bookshop del museo, suscitando il commento di uno degli organizzatori del viaggio: «Hai fatto bene a lasciare un contributo. Il museo versa in difficoltà economiche, chissà se riuscirà a rimanere aperto». Un brivido corre lungo la schiena. Specie se si pensa che, nello stesso giorno della nostra visita ad Auschwitz, il giornale di estrema destra “Tylko Polska” (“Solo Polonia”) titola in prima pagina “Come riconoscere gli ebrei”.

il bagaglio

Prima del rientro in Italia, gli studenti sono invitati a rielaborare l’esperienza. «Mi sono trovato di fronte a immagini crude, senza filtri - afferma Edoardo Insaghi -. Non posso e non voglio dimenticarle. Verso le vittime sento un’empatia che va oltre il mero studio. Dopo aver visto tutto questo si hanno tutti gli strumenti per comprendere gli eventi e attivarsi affinché non riaccadono». Così Nikita Poretti: «Andando di persona sui luoghi si provano delle emozioni che non possono essere restituite dai libri di testo. A scuola infatti si è molto più distaccati dalla realtà. Quest’esperienza mi ha aiutata a comprendere meglio quello che è stato, in un modo che non sarebbe stato possibile altrimenti». Un’idea simile a quella di Serena Ralza: «Prima di partire pensavo di aver compreso pienamente la gravità della storia. In seguito ho capito dai libri di scuola mi ero fatta un’idea astratta di ciò che è stato. Visitando il sito ho invece scoperto una serie di innumerevoli dettagli, macabri, che mai avrei potuto immaginare. La vera consapevolezza di tutto ciò che avevo visto mi è arrivata, di colpo, circa dieci minuti dopo essere uscita dal campo. Non ho risposte bensì più domande di prima. Mi risulta faticoso concepire che qualcuno odiasse qualcun altro, adducendo come giustificazione un pretesto banale come quello razziale».

5 minuti di riflessione

«Il momento più toccante è stato al termine della visita a Birkenau - racconta Jasmine Trombetta -. Ci è stato chiesto di prenderci cinque minuti di riflessione, per pensare a un messaggio da scrivere su di un foglietto, che poi avremmo lasciato sul binario che arriva fin dentro il campo. Sopra il pezzo di carta, un sasso: come nell’usanza ebraica. Mentre riflettevo mi sono passate davanti agli occhi le scene di tutto quello che avevo vissuto negli ultimi giorni. Prima, infatti, eravamo costantemente impegnati a recepire stimoli e informazioni. Mentre posavo il sasso sulla rotaia mi sono commossa». «Avevo deciso di partire perché il solo fatto di sapere della Shoah mi faceva sentire in colpa, pur sapendo di non avere responsabilità – prosegue Jasmine –. Ho capito che non ha senso che io mi senta in colpa, né che abbia paura. Invece è meglio utilizzare le energie che sono dentro a quei sentimenti per impegnarmi, nel mio piccolo, a informare gli altri». —


 

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