Dallo champagne ai debiti: la parabola dei jeansinari di Trieste

Viaggio tra gli ex negozianti diventati ricchi vendendo vestiti a clienti dell’Est e che hanno visto crollare i loro imperi dopo il tramonto della Jugoslavia

TRIESTE Dove sono finiti i “jeansinari”? Cosa fanno oggi i commercianti che, dagli anni ’70 fino al dissolvimento della Jugoslavia, hanno fatto i soldi in Ponterosso e Borgo Teresiano? Parliamo di nomi come Laghi (quello dei negozi “Manuel”) e Nistri, Mugnaioni e De Ros. E ancora Peschechera, Cucchiani e Giannella. O Del Sabato, titolare di “Giovanni” in via Ghega. Tutti testimoni di un pezzo di storia della città.

Trieste, Yugoslavia al tempo dei jeans


È l’epoca in cui il centro pullula di migliaia di clienti provenienti da oltreconfine. Sono gli “s’ciavi”, così li chiamano con scherno i triestini, che in treno, in pullman e a bordo delle loro Zastava vengono in città a comprare di tutto. Perché di là, nei loro Paesi, c’è il comunismo che non ha nulla. Qui invece c’è l’Occidente lanciato nel capitalismo. Abbigliamento, caffè, radio, bambole, calze di nylon per le donne. E poi la moda dei Levi’s, dei Rifle, delle t-shirt Fiorucci e delle felpe Best Company che ingrossano scaffali e banconi. Gli stranieri li acquistano a pacchi, spesso indossando tanti pantaloni uno sopra l’altro per raggirare le dogane. Mentre noi andiamo “de là” per la benzina, loro trasformano Trieste nell’emporio dei Balcani. Soldi a palate.

Un articolo pubblicato sul Meridiano del dicembre ’79 calcola che con la “propusnica”, tra il ’70 e il ’78, passano 5 milioni di persone l’anno. Nel solo ’78, a Trieste, si smerciano 8 milioni di jeans. I commercianti della zona incassano 200 miliardi di lire l’anno. Con il nero si raggiungono i 500 miliardi, più del doppio dell’attività portuale. I quattrini si portano in banca con i sacchi. Solo in banca? No, qualcuno si mangia interi incassi al casinò o in auto di lusso. O acora in ville con i rubinetti d’oro. Però c’è chi non sperpera e quando il momento magico si esaurisce, cade in piedi. Perché, nel frattempo, ha investito in altro: nell’immobiliare, soprattutto, nelle case di riposo e nell’antiquariato, oppure ancora nel commercio. Chi ha saputo far fruttare i quattrini raggranellati con il boom, oggi sta bene. Chi non l’ha fatto, invece, si arrabatta. Magari festeggiava con lo champagne il suo primo miliardo di lire e oggi vive con la minima.


La famiglia Nistri ancora oggi ha un negozio di abbigliamento all’angolo di via Timeus. «A partire dal ’54 – ricordano Carlo, il papà, e il figlio Giuseppe - avevamo aperto con lo zio Raffaello Mugnaioni i “Magazzini San Sebastiano”, in Cavana, attuale sede di Zinelli&Perizzi. Avevamo la fila fuori. La merce comprata dagli “s’ciavi” veniva trafficata nei Paesi del blocco sovietico. Noi abbiamo continuato nel settore. Altri “jeansinari”, invece, hanno prosciugato tutto: alcuni spendevano fino a un milione di lire al giorno». Due commercianti in particolare, giravano in Ferrari e poi la sera a spendere a Portorose. Oggi uno fa lo spazzino, l’altro l’usciere.

Allora andavano di moda locali come il Tor Cucherna, dove ci si divertiva senza badare a spese e senza pensare che l’eldorado potesse dissolversi. Venditori ambulanti con una o più bancarelle in Ponterosso che avevano colto il momento aprendo negozi. Al di là delle famiglie con una cultura commerciale, spesso però era gente improvvisata. Lo stesso termine “jeansinaro”, in quei tempi, aveva assunto una connotazione dispregiativa. Quando tutto è finito, con la guerra e la chiusura dei confini, per i jeansinari riadattarsi a una vita normale non è stato semplice. Molti hanno dovuto rivendere le ville e le auto comprate prima.

Gianni Cucchiani oggi ha 76 anni. Ha iniziato nel ’50 con le stoffe all’ingrosso. Nel periodo d’oro, in via Roma, aveva tre punti vendita, tra cui “Giovani”, uno spazio da 330 metri quadrati per 23 dipendenti. Vendeva Fiorucci e merce di fascia più alta. «I clienti dell’Est non erano ben visti dai triestini per le note ragioni storiche - commenta - ma spendevano con dinari, marchi e dollari mandati dai parenti di altri Paesi. Si incassava anche 20, 30, 50 milioni di lire al giorno. È vero, molti hanno reinvesito, altri sperperato. Quando testa e tasca non camminano insieme…». Cucchiani oggi esporta vini friulani e veneti negli Usa.

Un’epoca che ha fatto la fortuna di Franco Peschechera, 88 anni. È l’ex proprietario di “Franco pelle sport” di via Rossini, che alcuni anni fa ha dato in affitto. Ha puntato nell’immobiliare da subito, comprando appartamenti e altri spazi commerciali in Ponterosso, in palazzi di pregio, che oggi ospitano locali e un supermercato. «Mi danno una rendita. I muri non vanno in fumo, mentre il denaro, se non lo sai gestire, sì».

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