Del Monaco, una voce che stregò anche Tito

Il Maresciallo mise a disposizione il suo treno per far arrivare in tempo il tenore a Wiesbaden
Il tenore riceve i saluti di orchestra e coro, rifiuta le indicazioni del regista che timidamente vorrebbe dirgli almeno da che parte si entra e da che parte si esce, fa incominciare l’esecuzione diretta da Heinz Wallberg e si mette quasi in quinta ad ascoltare l’opera e gli altri cantanti uno dopo l’altro, senza cantare la propria parte. All’improvviso si sente levarsi una voce enorme, impressionante.


Del Monaco si è buttato in scena e canta con una foga che è un vero e proprio raptus drammatico. Alla fine il teatro, pur con la sola signora Rina in platea, esplode in un’ovazione incontenibile. Coro, orchestra, comparse, macchinisti, attrezzisti, sarte, l’intero personale dello Stadttheater si scatenano in una manifestazione di entusiasmo, mentre lui, incapace di contenere la soddisfazione, abbraccia felice le coriste... più giovani. Il trionfo naturalmente si raddoppia alla serata di gala, ma assicurano i presenti, quella traumatizzante generale sarebbe rimasta un’emozione insuperata. Nel 1970 Tito e Jovanka lo vogliono di nuovo a Belgrado – ovviamente «Otello e Norma» – e quasi non vorrebbero lasciarlo ripartire, guarda caso per tornare come da contratto a Wiesbaden dove ha dettato le medesime condizioni dell’anno prima.


Costretto a prolungare di un giorno la permanenza a Belgrado per una recita straordinaria e per la cerimonia con la quale Tito lo insignisce della massima onorificenza, l’artista non può partire come previsto: la nebbia non permette all’aereo di decollare per Francoforte. Immediato l’intervento del capo della Repubblica jugoslava: al tenore Mario Del Monaco sia tosto messa a disposizione la lussuosa carrozza di stato – quella sulla quale Tito abitualmente si sposta – e fatta partire immantinente. Così è che l’eroe del popolo socialista Mario Del Monaco, viaggiando sulla carrozza personale dello Zar jugoslavo (agganciata ad un treno merci!) passa il confine per dare facoltà all’artista di prendere un aereo in partenza per la Germania.


Ma la situazione meteo non è migliore in Italia: occasione che aggiunta ad altre, lo induce a cancellare gli impegni, mettendo in crisi i teatri di Wiesbaden, Monaco e Stoccarda e precipitando nel panico i poveri Otelli di riserva. L’episodio pittoresco è indicativo per almeno un paio di aspetti: in fondo Del Monaco, smessa la corazza fiammeggiante, era un civile «bourgeois empoté», che sollevato per i propri meriti artistici al settimo cielo della fortuna, era costretto a subire le leggi del successo, a crogiolarvisi e a sostenere ovunque il ruolo mitizzato del divo che da lui si voleva.


Il che gli riusciva senza sforzo e anche con molto piacere, ma con un misto di ingenuità ed istrionismo. Mostra ancora, l’episodio, come in quel torno d’anni, quando da raccogliere ha ormai solo allori con i suoi cavalli di battaglia e ricchezze da versare in banca o da investire, lo slancio dell’ambizione scenica (non la voce che conserva intatta e magnifica) comincia ad allentarsi. Si fanno così più frequenti le rinunce. Da una parte declina molti inviti, dall’altra torna volentieri, per certi affetti giovanili che riaffiorano in più tarda età, sui luoghi della giovinezza, nei teatri della generosa provincia italiana.


Come certi concertisti famosi amano spesso itinerari più riservati, Del Monaco svicola volentieri, quando glielo permettano grande e piccolo schermo ed obblighi di rappresentanza, verso teatri «minori». A suggerire rinunce intervengono, agli inizi degli anni Settanta, le avvisaglie della malattia renale che lo tormenterà in crescendo per un decennio. L’ultimo. E come sempre accade, quando il campione rischia di cadere, l’opinione pubblica più critica e più cinica ringalluzzisce. Quel divismo da vecchio tenore sembra superato.


A qualcuno (specie chi ne aveva profetizzato lo sfacelo molti anni prima) pare «datato» anche il suo stile. La popolarità no, quella nessuno riesce a scalzarla. La sostiene una presenza ancora affascinante, cui l’età sembra aggiungere anziché togliere. Un’età portata con eleganza, senza capelli tinti di mogano, brizzolata e rassicurante. E mentre cominciano dignitosamente gli addii (ultimo «Otello» a Bruxelles con la Ricciarelli), mentre lascia il passo alla nuova generazione, spiazza tutti con l’ultimo debutto. La scelta giusta nel momento giusto: «Stiffelio» al San Carlo con Angeles Gulin.


La tessitura centrale, la tinta matura e ombrata di un ruolo ancora «diverso» nella solitudine del dramma familiare esaltano una tecnica e una musicalità integre, un declamato che sta per diventare voce di altro tempo e di altro pianeta teatrale. È l’integrità del tenore, che si congeda dopo oltre trentacinque anni d’imprese – tra gli ultimi «Pagliacci» e l’ultima «Norma» (con una puntata nella violenza disperata di Luigi in un «Tabarro» a Torre del Lago) in quei cosiddetti «concerti di addio» tenuti a Parigi nel ’73 e nel ’74.


Poi gli ultimi dischi, le apparizione da guest-star in televisione, tra declinati inviti (compreso quello improponibile di Tito che lo vorrebbe direttore a Zagabria), onori alla carriera, master-class, seminari.

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