Roberto Di Lenarda: «Lascio un’Università più forte. Ora torno alla clinica, ma resto a disposizione per il bene pubblico»

Il bilancio dell’ex rettore di Trieste dopo sei anni di mandato: «Più fondi, più studenti, più docenti. La sfida futura? L’Ateneo in Porto Vecchio»

Valeria Pace
Il rettore di Trieste Roberto Di Lenarda (foto Bruni)
Il rettore di Trieste Roberto Di Lenarda (foto Bruni)

La scrivania vuota, il ritratto già appeso in rettorato accanto a quello di Maurizio Fermeglia a completare la galleria degli emeriti, Roberto Di Lenarda si è preparato con pagine e pagine di appunti per fare un bilancio dei sei anni in cui ha guidato l’Università di Trieste. E più di una pagina sarebbe necessaria per riportare tutti i ricordi e i risultati ottenuti, evocati alla vigilia del suo ultimo giorno nella carica.

Rettore, come si sente?

«Vivo questo momento come un passaggio naturale. Sento una grandissima riconoscenza per chi mi ha aiutato a rendere un periodo storico potenzialmente devastante come quello del Covid un’occasione. Le persone con cui ho condiviso questo percorso hanno dato molto di più di quello che era richiesto loro. E posso dire che oggi l’Università è più forte, più solida e più riconosciuta all’esterno, anche grazie agli interlocutori istituzionali, come la Regione, e altri partner come, tra gli altri, Fondazione CRTrieste e Generali».

Com’è iniziato il mandato?

«Il primo agosto 2019 la prima cosa che mi è stata detta dagli uffici tecnico amministrativi è stata: “Questo mese noi non possiamo pagare gli stipendi”. Il motivo? Mancava il direttore generale, non avevamo nessun dirigente e l’autorità politica – il rettore – non si può sostituire nella firma delle buste paga. Io decisi di farlo lo stesso per non lasciare 1.500 persone senza stipendio, e con loro mille specializzandi e 400 dottorandi. Insomma, uscivamo da un periodo complicato, ma abbiamo raggiunto risultati molto significativi».

Ad esempio?

«In sei anni abbiamo fatto più di 500 procedure di selezione per il personale tecnico-amministrativo, e ora al netto del turnover ce ne sono 100, il 20% in più, idem per i docenti. Ed è qualcosa che si è potuto fare in parte grazie ai fondi aggiuntivi anche a seguito del Covid, ma soprattutto siamo riusciti ad aumentare i fondi che riceviamo dallo Stato rispetto al 2019 per il significativo aumento dei fondi premiali per la nostra attività. Siamo l’ateneo statale con il maggior aumento di immatricolati negli ultimi sei anni, anche grazie all’incremento e al rinnovo dei nostri corsi di laurea.

Siamo riusciti a migliorare la valutazione della ricerca, anche facendo forti investimenti in strumentazione scientifica. E siamo riusciti a essere premiati per la qualità del reclutamento dei docenti. Abbiamo fortemente investito sulle chiamate di docenti dall’estero e vincitori di programmi di ricerca competitiva. Sono molto orgoglioso del piano straordinario di reclutamento di professoresse ordinarie, per ridurre il divario di genere tra l’altro proprio nell’anno in cui la corsa al rettorato era tutta al femminile».

Qual è stato il momento più difficile?

«Quando ho capito che le pressioni politiche per la cessione del Narodni Dom alla comunità slovena erano massime e bisognava trovare una soluzione che diventasse un’occasione di riconciliazione e non acuire sofferenze e tragedie. È stata l’unica votazione in consiglio di amministrazione non unanime che ho avuto. Ma se Mattarella e Pahor si sono tenuti per mano davanti alla foiba di Basovizza è stato per quanto l’Università ha fatto sul Narodni.

E credo che ci sia stata un’accelerazione dei momenti che hanno permesso di aumentare la capacità di ascolto tra le comunità in città. Un altro momento difficilissimo fu a novembre 2021 quando mi chiamò il direttore di Asugi e mi disse: “Dobbiamo sgomberare Valmaura per problemi di antisismica”. Appurato che i rischi erano ridotti, essendo in piena crisi Covid, mi sono preso la responsabilità di permettere agli studenti di finire il corso e laurearsi. Il Covid, peraltro, momento tragicamente critico, è stato anche occasione importante di costruzione di una comunità coesa e motivata».

I rapporti con il ministero? Non sono mancati passaggi tesi...

«A livello personale non c’è alcun problema. Ma oltre al primo momento dialettico relativo alla riduzione del Fondo di finanziamento ordinario nel 2024 di 6 milioni inferiore a quello stimato, sono convintamente critico su due temi: un troppo blando controllo nei confronti delle università telematiche e la modifica delle modalità di selezione degli studenti del corso di laurea in medicina. Spero di sbagliarmi ma vedremo tanti problemi a valle dell’applicazione di questa norma. Questo non vuol dire che tutto il mondo universitario, noi per primi, non si stia facendo in quattro per farla funzionare al meglio possibile».

Ci sono abbastanza fondi per l’università in Italia?

«Non c’è dubbio che se vogliamo essere tra i Paesi più avanzati oggi la quantità di finanziamenti è insufficiente. Bisogna trovarli: il Paese lo deve alle giovani generazioni e al proprio futuro».

È tentato dalla politica?

«Premesso che intendo tornare a tempo pieno alla mia attività clinica e didattica in ospedale, escludo di avere velleità politiche. Ma se potessi essere utile per le mie competenze in qualità di tecnico… Non sono certo uno che si tira indietro per il bene pubblico».

La sfida futura qual è?

«L’Università in Porto Vecchio è un tema epocale. Sarebbe in grado di portare un valore aggiunto straordinario, spero si troveranno in primis le condizioni economiche perché questo possa avvenire».

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