Dipendenti chiusi a chiave: tre condanne

Oltre 16 mesi all’ex preside Raciti per violenza privata e omissione di soccorso. Undici alle impiegate Bonica e Papi
La scuola primaria Duca D'Aosta di Monfalcone
La scuola primaria Duca D'Aosta di Monfalcone

MONFALCONE L’ex dirigente della scuola elementare Duca d’Aosta di Monalcone, Maria Raciti, è stata condannata dal Tribunale di Gorizia (giudice Sara Frattolin), alla pena complessiva di un anno, 4 mesi e 15 giorni di reclusione più il pagamento di totali 10mila euro di risarcimento alle parti civili, accogliendo in buona parte la richiesta della pm Laura Santagiuliano. Raciti era imputata di violenza privata aggravata nei confronti di alcuni dipendenti amministrativi. I fatti risalgono all’anno scolastico 2010-2011.

 

«Chiusi a chiave e minacciati dalla preside»
Altran Mf-preside Duca D'Aosta Mariella Raciti

 

Il processo a carico di Raciti - che, assistita dall’avvocato Luigi Genovese, ha seguito in aula tutte le udienze - è stato riunito ad altri due filoni riguardanti sempre fatti accaduti alla Duca d’Aosta in quel tribolato anno scolastico. Sul banco degli imputati, anch’esse per il reato di violenza privata aggravata e omissione di soccorso, pure l’ex responsabile amministrativa Marzia Terzita Bonica e l’impiegata Giuseppina Papi (difesa Falagiani). Sono state condannate entrambe alla pena totale di 11 mesi di reclusione oltre al risarcimento delle parti civili, 2000 euro ciascuna. Si è dunque concluso un processo piuttosto ingarbugliato che, al di là delle verità giudiziaria sancita dalla sentenza di primo grado, conferma quanto l’elementare Duca d’Aosta, in quel periodo, fosse una polveriera. Una situazione che all’epoca Il Piccolo aveva puntualmente segnalato ottenendo le solite smentite e precisazioni.

Dal processo è emerso che Raciti era solita chiudere a chiave la porta del suo ufficio quando convocava qualche sottoposto. La chiave veniva estratta dalla serratura con ciò inducendo gli interlocutori a una situazione di sudditanza psicologica. La difesa ha ribadito che Raciti chiudeva le porte per mantenere riserbo sui colloqui con il personale e che finito l’incontro apriva senza indugio la porta. È stato curioso notare ieri, poco prima della lettura della sentenza, che quando Raciti è entrata nell’aula nella parte riservata al pubblico ha chiuso la porta - non a chiave, nonostante l’udienza non fosse ripresa.

 

«Mai sequestrato nessuno nel mio ufficio»

 

Ciascuno ha le sue abitudini. Raciti aveva così spiegato la sua decisione di chiudere a chiave tutte le porte della scuola: «All’atto del mio insediamento alla guida della scuola, nel settembre del 2009, mi resi subito conto delle criticità della Duca d'Aosta. Una scuola di frontiera con tanti alunni stranieri, con gravi carenze nella sicurezza dell'istituto tanto che capitava spesso che gli alunni si allontanassero dalle aule. Non mancavano i minori che scappavano dalla scuola e alcuni di essi appartenevano a famiglie inserite nel sistema di protezione perché nel mirino della criminalità organizzata. Per questo dovetti intervenire e disporre la chiusura degli ingressi». Anche questo passaggio è interessante: le istituzioni, all’epoca, hanno negato fino alla nausea la sconcertante verità della grave situazione in cui versava l’elementare di Monfalcone, dove oggi gli alunni italiani sono una striminzita minoranza.

Da quanto emerso in aula Raciti, Bonica e Papi non andavano per il sottile con il personale ritenuto da loro non all’altezza dei compiti affidati. Un’impiegata, parte lesa, così aveva testimoniato: «La dirigente mi affidava ogni giorno nuovi incarichi, mentre altre colleghe godevano di ben altro trattamento. Quel giorno (il 10 maggio 2010 ndr), giunta in ufficio, trovai un nuovo incarico. Andai dalla preside per chiederle quale lavoro dovevo svolgere per primo. La preside e la segretaria tenevano sempre chiusa la porta e per parlare con loro bisognava annunciarsi, talvolta prenotarsi o fare lunga anticamera. Quel giorno il colloquio con la preside, che mi accolse chiudendo la porta a chiave, si concluse con un diverbio e con nuove minacce nei miei confronti. Era presente anche Bonica. Quando uscii dall’ufficio ero sconvolta, stavo male. Un collega nel vedermi in quello stato chiamò il 118 ma Raciti telefonò subito dopo al 118 per bloccare il soccorso. Minacciò poi il collega che era assunto a tempo determinato e quindi più vulnerabile di altri. Ma il mio malore si aggravò; andai in bagno a vomitare. Di nuovo il mio collega chiamò il 118 e fui trasportata all’ospedale. Successivamente andai al commissariato di polizia a raccontare quanto mi era successo». Di qui la condanna delle tre imputate anche di omissione di soccorso.

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