Don Vatta, la lezione della speranza

“Custodire la speranza - Un giorno il deserto finirà” è il titolo del libro di don Mario Vatta, pubblicato della casa editrice Nuovadimensione e arricchito da una prefazione di Giorgio Pilastro. L’opera sarà presentata giovedì 14 dicembre alla Casa della Musica in via dei Capitelli 3 (ore 18, ingresso libero) alla presenza dell’autore e con l’accompagnamento musicale della BDBand (Buona Domenica Band). Il libro – 155 pagine, disponibile a 14 euro – ospita la raccolta degli scritti di don Vatta sul Piccolo, dal novembre del 2021 all’ottobre del 2023. Quarantanove testi di riflessione e di testimonianza, di profondità e di sollecitazione alle coscienze di tutti. Il libro si apre con una citazione biblica, dalla prima lettera di Pietro: “Siate sempre pronti a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi”.
TRIESTE Ci sono abitanti che rendono Trieste più degna di essere città. Fateci caso: per i latini, la città si chiamava “urbs”. Perché la parola città è una conquista successiva: sta a indicare un insieme di persone, i cittadini appunto, che scelgono di abitare un luogo determinato. Ebbene, in questa accezione di città ci sono abitanti che le conferiscono un tono e un valore particolare.

Don Mario Vatta è fra di essi, poiché del concetto di vivere insieme ha fatto il centro della sua esperienza di vita e ecclesiale. Vivere insieme, ossia condividendo. Sta tutta qui la forza e il senso della comunità di San Martino al Campo, fondata da don Mario 53 anni fa e che da allora non cessa di andare incontro a chi ha meno, a chi per sventura ha perso tutto o sta cercando di conquistare qualcosa.
Per quanto possa apparire stupefacente, alla soglia degli 87 anni, don Mario sostiene che «l’esperienza di San Martino al Campo nel tempo è andata crescendo, dimostrando per fatti che con il volontariato e il terzo settore Trieste non è solo una città tollerante ma soprattutto una città accogliente». Da dove potrebbe discendere lo stupore? Da due fattori concomitanti e di frequente concorrenti. Il primo: siamo soliti considerare la nostra stagione storica come un tempo dall’orizzonte basso, scarico di passioni intense, povero di impegno civile e sociale, inabile a coltivare speranze sul domani. La seconda: di norma, le persone anziane a fatica esprimono una lettura gioiosa del tragitto percorso e, men che meno, leggono nell’avvenire una chance di progresso per la condizione umana. Prevalgono inquietudini, solitudini, rinunce. E dunque l’attitudine di don Mario, che non cessa di mantenere saldo il suo impegno e di ispirare un folto gruppo di volontari, appartiene al rango delle belle sorprese e delle buone ragioni della cittadinanza.
Don Mario collabora con il Piccolo dal 2006 e da allora, sgranando un articolo ogni due settimane con la sua rubrica, ha seminato circa 430 sassolini nel bosco delle nostre coscienze. Gli articoli pubblicati negli ultimi due anni sono stati ora raccolti in un libro, edito da Nuova Dimensione, il cui ricavato non ha nulla a che vedere con la vanità solitamente molla primaria di ogni autore: i denari che don Mario otterrà dalla vendita della sua silloge saranno naturalmente destinati a sostenere la comunità di San Martino e il lavorio incessante di una piccola folla di silenziosi operatori di pace.
Lì si costruisce il proprio operato su una base semplice quanto impegnativa: l’idea di speranza. Ma sappiamo ancora sperare, oggi?
Ci riusciamo ancora, ma sempre meno spesso: questa è la verità. Tendiamo a sprecare la speranza in rivoli fatui: il tifo sportivo, la curiosità per il meteo, l’ansia per la durata di un viaggio. Speriamo che la squadra rimonti e vinca, speriamo che esca il sole, speriamo che il traffico si alleggerisca tra qualche chilometro. Niente che abbia a che fare con un nostro sacrificio. Sono speranze di plastica, costano poco e non ti abbandonano, le smaltisci male. Soprattutto, noi speriamo meno nelle persone. Non investiamo su di loro, sulle loro reazioni, sulle loro capacità di sanare il mondo. Per il resto ci seduce la negatività e preferiamo percorrere i vicoli malsani dei luoghi comuni. Si stava meglio quando si stava peggio.
Così vestiamo di nichilismo i luoghi comuni, luoghi brutti che intossicano i nostri percorsi e interdicono il respiro della vita. Don Mario Vatta, invece, no. Lui è una cintura nera di speranza. Il 14 novembre del 2021, indomito, fende la nebbia dei nostri pessimismi gretti e comodi e scrive: «Lo sappiamo che non tutto dipende e dipenderà da noi; troppe sono le ingiustizie, troppe le inquietudini che attraversano l’umanità, troppi gli egoismi dei grandi del mondo, ma la parte sana del genere umano saprà insorgere con gli strumenti della giustizia, della pace, del riconoscere nell’altro un amico, un fratello e non un avversario né, tanto peggio, un nemico».
È il primo degli articoli in questa settima raccolta, intitolata non casualmente “Custodire la speranza” e sottotitolata con un annuncio tenero, tenace e ribelle: un giorno il deserto fiorirà. Una delle parole che mi piace di più, scrive don Mario, è “domani”. Anziano e immerso nel dolore e nel disagio delle esistenze meno fortunate, sa sperare e non si rassegna al fatto che noi non ci riusciamo più.
Il 12 dicembre, sempre del 2021, quando tutti siamo costretti dal Covid a nuove dinamiche, riflette sulla tecnologia che «ci verrà in aiuto» anche durante i momenti emotivi del Natale: accoglie Whatsapp, Zoom, le video chiamate al posto delle carezze. Ed ecco quel bicchiere che si riempie sempre fino alla quota del mezzo pieno. Passa quasi un anno; arrivi al 6 novembre del 2022 e a pagina settantanove trovi questa frase: Non voglio rassegnarmi al sentirmi dire “che vuoi, le cose stanno così”. In fondo è tutto qui, in queste parole semplici e dirette.
Il nuoto è lo sport più completo, la palla è rotonda, d’estate il problema non è tanto il caldo, quanto l’umidità; le mezze stagioni continuano a essere sparite e la colazione è il pasto più importante. Quanti luoghi comuni abitiamo ogni giorno come appartamenti seriali e mal arredati. Poi arriva uno come don Mario Vatta e quei luoghi si sgretolano, nella loro banalità. Cambia la scena, arriva una colonna sonora jazz, improvvisata e profonda come piacerebbe a lui che ama il genere e adora il sax. Una musica che dagli anni Settanta suona per i giovani emarginati: tossicomani, carcerati, alcolisti, prostitute, malati mentali, perdenti e perduti; colonne sonore jazz, da cambiare finalmente; anime da restituire a se stesse prima ancora che agli altri, attraverso quella macchina di concretezza e sentimenti che risponde al nome di Comunità di San Martino al Campo. Non sappiamo più sperare bene, non sappiamo più sperare a sufficienza. Ma poi don Mario ci spiega che è ancora possibile.
Chi fa del bene forse si nota meno, di sicuro fa meno rumore. Ma dove andrebbero altrimenti i senzatetto con cui don Mario condivide l’abitazione? Uomini e donne piegati da alcool, droga, disagi psichiatrici, falliti, immigrati in cerca di fortuna: un fiume di persone ai margini che hanno perso tutto e talora anche la dignità. «Un popolo di derelitti in cammino su una strada in salita, ma se ci teniamo per mano forse ce la possiamo fare. Grazie alla passione di tanti e tanti volontari, grazie a tanti operatori sociali che credono nel loro lavoro e si fanno carico dei drammi delle persone. Animo, possiamo farcela» conclude don Mario.
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