Dopo lo schianto le sei ore nel fossato: «Marco salvato dal cellulare di papà»
Il racconto di Linda Zelik che ha perso il padre Bruno, il fidanzato è salvo grazie alle sue chiamate. «Li cercavamo con mia madre, il telefono era silenzioso ma con il buio ha visto la luce del display»

«Erano davanti a noi... tra noi e loro c’erano altre tre moto e un’auto, ma non ci siamo accorti di niente.... tanto che ci siamo resi conto che non c’erano solo quando siamo arrivati a Trieste».
Linda Zelik, la figlia del cinquantaquattrenne Bruno, deceduto nello spaventoso incidente in moto di sabato pomeriggio tra Divaccia e Cosina, nei pressi dell’incrocio per Matavun, ripercorre con la mente ciò che può essere successo a suo padre e al suo fidanzato.
In sella a quella moto, scivolata in una scarpata che costeggia la carreggiata senza che nessuno si fosse reso conto di nulla, c’erano suo papà e, seduto al posto del passeggero, il trentatreenne Marco Vaccaro, il suo compagno.
La moto è precipitata nel fossato e si è schiantata contro un albero. Il padre, che guidava il mezzo, è stato trovato senza vita tra i cespugli sottostanti, mentre il giovane è finito su un prato e si è salvato; è stato portato all’ospedale di Isola e poi trasferito a Cattinara. Ha varie lesioni e fratture a un braccio e a una gamba ma è in miglioramento. I due sono stati rinvenuti dalla Polizia slovena e dagli stessi famigliari svariate ore dopo l’incidente.
Ciò che è accaduto, quel pomeriggio a pochi chilometri da Trieste, rasenta l’incredibile.
L’antefatto. Sabato è un giorno di festa per la famiglia: è il compleanno di Linda. La ragazza, suo papà Bruno, la madre e Marco, il fidanzato, decidono di andare a pranzo in Slovenia. Tutto è tranquillo, anche la strada di ritorno, trafficata come lo può essere un sabato estivo. Bruno e Marco sono in moto, mentre Linda e la madre li seguono in auto.
«Erano le 17.15 quando siamo rientrati a Trieste dal pranzo in Slovenia», ripercorre la figlia. Arriviamo a casa ma loro non ci sono. Aspettiamo un po’, pensando che magari si fossero fermati a fare benzina. Attendiamo ancora, ma a un certo punto io e mamma abbiamo iniziato a preoccuparci. Quindi rimontiamo in macchina e facciamo l’intera strada a ritroso».
Niente. Del padre, del fidanzato e della moto non c’è traccia. Linda e la madre ritornano quindi a Trieste e, sospettando un incidente, telefonano agli ospedali, sia a Cattinara sia oltre confine. Ma non risulta alcunché.
«Non sapevamo che fare...», ricorda la figlia. L’angoscia è tanta. «Allora abbiamo chiamato la Polizia slovena. Nel frattempo continuavo a chiamare con il cellulare sia mio padre sia Marco. Il telefono del mio fidanzato risultava spento, mentre per quello di papà le chiamate Whatsapp squillavano... avrò chiamato duecento volte». Nel frattempo cala il buio.
Linda continua a chiamare al cellulare del padre, ma lui è già morto. Marco, come racconterà lui stesso in ospedale, a un certo punto riprende coscienza, apre gli occhi e vede lampeggiare il display di un telefono per terra: sono le chiamate insistenti della fidanzata. Si trascina con il braccio non fratturato, raggiunge lo smatphone e risponde: «Sono qui...». E manda la posizione.
Sono le 23, ormai, quando i soccorritori individuano i due triestini. Almeno sei ore dopo lo schianto. «Ripensandoci – ricorda Linda – a un certo punto mentre percorrevo la strada dietro la moto e gli altri veicoli ho visto come una sorta di nube di ghiaia, ma non ho sospettato che fosse un incidente. Anche perché mio papà aveva una guida esperta. Non correva, tanto più che con lui c’era il mio fidanzato».
Secondo la Polizia slovena la moto è finita fuori strada in prossimità di una curva. «Ho controllato il punto da cui sono caduti nella scarpata – precisa Linda – e non c’è nemmeno una frenata sull’asfalto. E Marco non ricorda nulla». —
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