Emergenza profughi. Nangyalai: «Sei mesi di viaggio per fuggire dalla guerra»

La storia di uno dei richiedenti asilo ospitati a Trieste alla "Sacra Osteria": «In Afghanistan sarei stato prelevato dai talebani e costretto a combattere, ma io ripudio la violenza»
L'ex Sacra Osteria
L'ex Sacra Osteria

Un travaglio lungo sei mesi, iniziato con la fuga dagli orrori di una guerra e proseguito nel segno della paura: quella di veder andare in frantumi un progetto migratorio che spesso rappresenta l’unica possibilità di sopravvivenza. Tanto è durato il viaggio di Nangyalai, diciannovenne afghano, uno dei 39 rifugiati che hanno trovato riparo nei locali dell’ex Sacra Osteria di Campo Marzio, a Trieste.

Il giovane profugo è partito dalla bella e tormentata Jalalabad, una città dell’Afghanistan orientale, capoluogo della provincia di Nangarhar, che si trova a 70 chilometri dal confine con il Pakistan e che è diventata un luogo da dove fuggire se hai l’età per imbracciare un kalashnikov o per indossare una cintura imbottita di esplosivo. «Ripudio la guerra e la violenza – spiega Nangyalai soppesando le parole ed esprimendosi in un inglese fluente - . Se fossi rimasto nel mio Paese sarei stato prelevato e portato in un campo di addestramento dove i talebani forgiano le tecniche di guerriglia dei propri combattenti».

Quella di Nangyalai è stata una scelta obbligata. La motivazione alla base della sua fuga è la migliore risposta a chi fomenta la paura nei confronti dei rifugiati: chi scappa dalla propria terra all’affannosa ricerca della pace, non può essere portatore di violenza. Non si può generalizzare e gli occhi del giovane afghano, alla domanda sul perché alcune persone si dicono spaventate dalla presenza in Italia dei richiedenti asilo, tradiscono il dispiacere di chi ha lasciato tutto, compresa la famiglia composta dalla madre, da due fratelli e tre sorelle, nella speranza di costruirsi un futuro lontano dalle brutture che hanno contraddistinto i primi diciannove anni della sua vita. «Voglio solo poter vivere in pace – risponde stupito – senza avere problemi e senza crearne». La paura è stato il sentimento che ha accompagnato Nangyalai nei sei mesi che gli sono serviti per raggiungere Trieste, attraverso una sottile linea che ha attraversato l’Iran, la Turchia, la Bulgaria, la Serbia, l’Ungheria, l’Austria e infine l’Italia.

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Alcuni dei profughi ospitati a Gorizia in una foto di qualche mese fa

Sono stati mesi difficili, durante i quali ha dormito e mangiato poco, «dove e quando capitava», e ha visto alcuni ragazzi come lui venire uccisi dalle pallottole dei militari, lungo il confine che separa l’Iran dal Paese della Mezzaluna. «Eravamo in 25 – continua nel suo racconto – e abbiamo camminato dalle sei alle dodici ore al giorno, anche attraversando le montagne, riuscendo qualche volta a salire clandestinamente su un treno. Abbiamo patito il freddo, specie in Bulgaria e Serbia, dove abbiamo passato due giorni nei boschi, senza sapere dove andare». Lasciatisi alle spalle i rischi di un Paese come l’Iran, il gruppo di profughi non ha visto esaurirsi le occasioni di pericolo, come in Serbia, «quando dei poliziotti, ma forse il loro era un travestimento, ci hanno portato via i cellulari e i pochi soldi che avevamo ancora a disposizione, prima di lasciarci andare». Nangyalai, ironia della sorte, indossa una felpa con la scritta “walking towards”, “camminare verso”, che gli è stata data dagli operatori dell’Ics, il Consorzio italiano di solidarietà. La mèta di questo ragazzo è diventata l’Italia. «Non sapevamo che saremmo arrivati qua – sorride timidamente - , volevamo solo scappare dalla guerra». L’incontro con Nangyalai si conclude nel segno della gratitudine. «Ma-na-na – ripete più volte in lingua pashtu - . Grazie Italia per avermi ridato la pace».

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