Emozione Springsteen per 30mila allo stadio “Rocco". FOTO

Amore, rabbia e gioia in scena a Trieste. Davanti al palco il prato e gli spalti gremiti ondeggiano al ritmo delle note trasmesse dai potenti altoparlanti. Storico concerto senza confini
Lasorte Trieste 11/06/12 - Stadio Nereo Rocco, Concerto di Bruce Springsteen
Lasorte Trieste 11/06/12 - Stadio Nereo Rocco, Concerto di Bruce Springsteen

TRIESTE. Lo spettacolo comincia alle 21.20. Lo stadio Rocco, brulicante di trentamila fan, esplode non appena appare Lui. «Mandi Trieste, dober vecer...», mischia reminiscenze friulane e d'oltreconfine. Bruce Springsteen suona la carica. Il pubblico, arrivato da ogni dove, è pronto a rispondere a tono. E Trieste si infiamma. Partenza da delirio con “Badlands” e “No surrender”: Bruce pesca nel suo repertorio più antico per inaugurare la festa triestina. E la musica sparata dagli altoparlanti tiene lontane le nuvole che, minacciose, fanno capolino attorno al catino dello stadio.

Il colpo d’occhio è eccezionale.  Mai visto uno spettacolo del genere a Trieste. Il palco è enorme, ma comunque essenziale. Le musica dice tutto, non servono effetti speciali a Springsteen per trasmettere lil suo amore, la sua rabbia e la sua gioia di vivere.

Tenuta da “working class hero”: camicia gilet e jeans neri, come le scarpacce giuste per quelli come lui, come i suoi, sempre “nati per correre”. Entra in scena come un eroe del West sulle note di “C’era una volta in America”, omaggio a Morricone e all’Italia, ma anche citazione della distanza sempre più grande fra sogno americano e dura realtà, fra promessa di un domani migliore e un presente difficile, disperato.

È il tema del nuovo album, “Wrecking ball”, i cui brani già si sposano perfettamente con i classici. L’inno degli arrabbiati d'America, che diventa messaggio di patriottica solidarietà, di “We take care of our own”, terzo brano in scaletta. La metafora della “palla da demolizione” che dà il titolo al disco e arriva subito dopo: distruggere per ricostruire, le case come le speranze e gli ideali spazzati via dagli ultimi anni di storia. E ancora la condanna degli avvoltoi «che hanno portato la morte nella nostra città», che hanno distrutto fabbriche e famiglie e ci hanno portato via la casa (“Death to my hometown”, ideale contraltare alla vecchia “My hometown”). E ancora la speranza di farcela comunque, scandita da suoni da “marchin’ band” di quel gioiellino che più avanti è “Jack of all trades”: canzone “per tutti quelli che stanno lottando”, fra i tempi duri americani e i nostri, peggiorati dalle macerie del terremoto.

Lo stadio è un catino bollente. Sciabolate rock, contaminate di folk e soul, squarciano la notte triestina. La folla segue il suo predicatore, il suo linguaggio semplice ma universale. E il Boss si scatena, cerca il contatto anche fisico con il popolo delle prime file, del “pit” sotto il palco. Mentre la vecchia E Street Band - con un bolso Little Steven che fa da contraltare alla tonicità del nostro - è schierata come una falange macedone, anche quando s’inventa marce irlandesi punteggiate da cornamuse. Ma la notte è ancora giovane. Sono passate le 23, la gente canta e balla sul prato come nelle tribune, sa che il viaggio è ancora lungo.

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