“FABBRICARE” ACQUA? È (GIÀ) UNA REALTÀ

di GIANPAOLO SARTI
Non c’è alcuna formula nuova, nessuna particolare scoperta. Tutto è piuttosto semplice, come bere un bicchier d’acqua, per restare in tema. Perché qui si tratta di prendere quanto la natura già offre, il sole, e impiegarlo al servizio del bene più prezioso: l’acqua, appunto, per renderla potabile a favore di chi dispone di risorse troppo scarse per sopravvivere.
L’idea del 33enne veneto Paolo Franceschetti è nata nel 2006 sui banchi dell’Università di Padova. Quella che doveva essere una normale tesi di specializzazione in Scienze ambientali è diventato nel giro di qualche anno un progetto di green economy dalle potenzialità ancora da setacciare fino in fondo. Si chiama “Solwa” – da solar water – è un impianto di depurazione e desalinizzazione che funziona a energia solare, senza prodotti chimici aggiuntivi.
Idee giovani. Nel 2012 Franceschetti ne ha fatto una start-up (nuova azienda) che oggi fa parte della Santex Rimar Group. La società ha sede a Vicenza ed è gestita solo da under quaranta. Dietro c’è un’intuizione: agire sul ciclo dell’acqua. Paolo ha creato piccole serre in grado di depurare quanto contaminato, o salato, grazie alla radiazione solare.
Un principio semplice. L’acqua, quella di mare ad esempio, viene raccolta in una vasca e fatta evaporare, per poi essere spostata con una ventola in un altro recipiente. Qui il vapore torna allo stato liquido, libero dal sale ormai depositato o dagli inquinanti. Il sistema consente di produrre circa una decina di litri di potabile al giorno senza il bisogno né di allacciamenti a reti energetiche convenzionali, come elettricità o combustibili, né di manutenzione periodica. È sufficiente un pannello fotovoltaico. L’economicità e l’efficacia nella depurazione hanno spinto le Nazioni Unite a riconoscere Solwa tra le innovazioni da impiegare «per lo sviluppo dell’umanità».
Bastano pochi soldi. I costi? Un singolo “modulo”, non più grande di un metro quadrato, tarato sulle esigenze di una famiglia, non supera il migliaio di euro. Per rifornire una scuola, invece, servirebbero sei, sette impianti. I conti sono presto fatti: per un villaggio di cento famiglie non si andrebbe oltre i 100 mila euro. Il modello è stato testato da vari enti italiani, con sperimentazioni in progetti di ricerca e applicazioni in alcune località di Paesi in via di sviluppo.
«Recentemente abbiamo realizzato il dispositivo in una scuola del Burkina Faso – racconta Franceschetti – per togliere l’inquinamento da mercurio e arsenico. Così in un asilo in Perù. Naturalmente nel deserto con 48 gradi è tutto più efficiente, mentre con la nebbia del Nord Italia meno. Un aspetto, questo, certamente migliorabile installando pannelli solari termici capaci di captare la radiazione diffusa».
Milioni di vite da salvare. Innovazioni del genere potrebbero essere esportate in tutte quelle aree dove il basso livello della qualità delle risorse idriche incide sulla salute della popolazione. L’accesso all’acqua potabile, stando alle stime delle organizzazioni internazionali, salverebbe ogni anno oltre tre milioni di vite umane. Basti pensare che la popolazione dei Paesi sviluppati (l’11% dell’umanità), oltre a possedere 84% della ricchezza, consuma 88% delle risorse, inclusa l’acqua. 780 milioni di persone, d’altronde, non hanno accesso a fonti pulite: una su nove nell’intero pianeta. «Intervenire con impianti di depurazione di questo tipo, proprio per ridurre la forte mortalità nel mondo, a iniziare da quella infantile – riprende Franceschetti –, rappresenta un modo diverso di ragionare sull’utilizzo. Cambia la mentalità, visto che attualmente dipendiamo da grosse società che gestiscono le reti. Il sistema che abbiamo pensato consente di rendere autonoma un’abitazione o un intero villaggio».
È un po’ come il pannello fotovoltaico sopra il tetto di casa: chi ci abita diventa il produttore dell’energia di cui ha bisogno. «A causa della mancanza di acqua nel mondo c’è un decesso ogni quattro secondi», insiste il giovane inventore. «Patologie come l’ebola destano giustamente paura e preoccupazione in tutti, ma si considerano davvero poco i problemi legati alle risorse idriche che sono più devastanti in quanto a vittime».
Cambio di mentalità. Paolo e i suoi colleghi hanno ben presenti gli ostacoli di questo «cambio di mentalità» che propongono. «C’è una forte diffidenza verso qualsiasi novità e quindi proposte come la nostra vengono considerate con poco interesse – riflette – forse perché siamo giovani e il progetto non è ancora su larga scala. Talvolta, inoltre, ci scontriamo con le ridotte disponibilità finanziarie di enti e istituzioni, scettici ad acquistare il prodotto, anche se nel lungo periodo il risparmio è assicurato. Come spesso accade, si investe sui progetti di cura portati avanti da grandi organizzazioni umanitarie anziché agire sull’origine del problema».
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