Facciamo fare la pace a D’Annunzio e Saba
il vero problema è che D’Annunzio è stato troppe cose insieme

La figura più monumentale del decadentismo...». Così scriveva, molti anni fa, Mario Praz di Gabriele D’Annunzio. Il “vate”, quindi, il suo monumento, letterario, ce l’ha già e nessuno può negarglielo. Ma il vero problema è che D’Annunzio è stato troppe cose insieme. È stato osannato, detestato e temuto, anche dal quel fascismo che aveva tenuto a battesimo nella sua fase “rivoluzionaria”. Mussolini, che lo conosceva bene, lo ammirava e lo temeva e per questo lo fece sorvegliare fino alla fine dei suoi giorni.
D’Annunzio è stato un grande poeta, ma voleva essere di più, un soldato, anzi un “eroe”, anche se le sue imprese, per quanto eclatanti, come il sorvolo su Vienna e Trieste, erano meno pericolose di quanto si potesse pensare. E poi non era amato dai soldati, quelli veri, che strisciavano e morivano nel fango delle trincee, perché lui – letteralmente – volava troppo alto.
Voleva essere amato dal suo vastissimo pubblico e dalle donne, sulle quali esercitava fascino irresistibile, anche quando, negli ultimi anni di vita, era ridotto a un’esile ombra di se stesso. Era – a suo modo – moderno, curioso e approssimativo. Fu anche un grande pubblicitario, soprattutto di se stesso, ma anche a livello professionale, come nel caso della Rinascente, nome proposto – su commissione – da D’Annunzio nel 1918. Pochi anni prima era stato richiamato in Italia dall’“esilio” per debiti di gioco, probabilmente pagati dalla monarchia, per poter utilizzare la sua potente retorica a favore dell’interventismo dell’Italia nella Grande Guerra, contro l’Austria, l’eterna nemica del nostro Risorgimento. Fu l’inventore della “vittoria mutilata”, una clamorosa fake news a livello storico e diplomatico, ma sufficiente a innescare “l’impresa di Fiume”, tra il settembre 1919 e il Natale di sangue del 1920, conclusasi con lo sgombero della città da parte dell’esercito italiano, dopo il trattato di Rapallo.
Anche i 16 mesi della Reggenza italiana del Carnaro furono straordinariamente ambigui. Fu un colpo di mano, finanziato da Mussolini, e una sorta di insurrezione, ma una volta a Fiume divenne una specie di Repubblica, fantasiosa e indisciplinata, patriottica e “internazionalista”, tanto che lo stesso Lenin la guardò con curiosità e interesse.
Poteva essere l’inizio di una “marcia su Roma e dintorni”, ma la storia e Mussolini avevano piani diversi a riguardo. Il “torbido ardore” di D’Annunzio, alla fine, ha reso lunga e dolorosa la decadenza, non solo fisica, del “monumento” del decadentismo, prostrato dai malanni e dall’uso sempre più smodato di farmaci e cocaina. Gli ultimi sprazzi di lucidità, però, D’Annunzio li ha spesi per dissuadere l’amico e “compagno” Mussolini dall’alleanza con Hitler, personaggio che disprezzava, trascinato – forse – da una antica ostilità risorgimentale nei confronti del “tedesco”.
Grandezza e ambiguità, quindi, e non sorprende che ci sia tanta ostilità ed entusiasmo sulla proposta di dedicargli una statua a Trieste. Perché no? riflette Claudio Magris, fondando il suo meditato parere sull’innegabile spessore del poeta. Perché sì? risponde, tagliando con l’accetta il suo giudizio, Mauro Corona. È una provocazione ideologica, nel luogo e nel momento sbagliato, come argomenta Luca Sofri, o è una grande opportunità turistica, come sostiene il sindaco di Trieste? E chi lo sa? Di certo la statua, con un D’Annunzio seduto su una panchina che legge un libro, a suo modo, è minimalista, per nulla invadente. Allora avanzo una modesta proposta. Partiamo da Umberto Saba, che non amava D’Annunzio perché – al contrario del vate – amava la “poesia onesta”, quella che s’incanta «per la rima fiore/amore, /la più antica difficile del mondo» e perché «ero tra lor d’un’altra spece». Mettiamo la panchina di bronzo con D’Annunzio che legge nei pressi di Saba che passeggia, e vediamo se i due poeti, alla fine, faranno la pace. –
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