Fanny Ardant: «La cultura serve, non è mai un lusso»
L’attrice francese ha presentato la sua opera prima come regista, intitolata ”Ceneri e sangue”

TRIESTE.
Fanny Ardant ha chiuso ieri sera il XXI Trieste Film Festival con l’eleganza e il fascino artistico che solo le grandi dive, ormai così rare, sanno emanare. Fino ad ora come attrice, da oggi anche come regista dell’opera prima
"Ceneri e sangue"
presentato ieri al Cinema Ariston, la Ardant è una naturale catalizzatrice d’arte, curiosa di tutto, amante del cinema e del teatro, dell’Opera e delle letture.
Non a caso è stata scelta da alcuni dei più grandi autori cinematografici come Truffaut, Costa-Gravas, Resnais, Antonioni, Scola. La sua opinione è chiara: «L’arte salva, anche dalle crisi economiche. Come il cinema, avrebbe bisogno di più finanziamenti. Le Destre fanno credere che la gente abbia bisogno solo di pane e di gioco, come se la cultura fosse un lusso. Ho l’impressione che sia demagogia, populismo».
Il suo debutto alla regia è una storia di famiglia densa di scheletri nell’armadio e legami ancestrali indissolubili («il sangue indica l’energia vitale, la cenere il passato che ci ritrova sempre, per punire o meravigliare», spiega la regista francese). La trama stilizza la tradizione della tragedia greca ispirandosi però al libro “Eschilo il grande perdente” di Ismail Kadaré, che racconta come, in alcune zone del nord dell’Albania, niente sia cambiato dal tempo di Eschilo: la legge del sangue è rimasta la più forte.
Così il film, ambientato in un’epoca e in un luogo imprecisato ma in realtà girato in Romania, è pieno di riferimenti al rapporto con la terra e con il ferino: compaiono addirittura dei lupi, con i quali l’attrice ha voluto interagire direttamente. La Ardant non era mai stata a Trieste ma l’aveva frequentata attraverso Joyce e Svevo, di cui ama soprattutto “La coscienza di Zeno”, «perché ha quel tipo di ironia italiana che evita sempre il melodramma troppo diretto».
S
ignora Ardant, quali influenze sono entrate nel suo primo film?
«Impossibile delimitarle con precisione: le influenze sono come la pioggia, dove cadono fanno crescere qualcosa. Sicuramente mi hanno impressionato il cinema italiano e quello russo, ma il mio film è come una favola, un rituale, con una strizzata d’occhio all’Opera lirica».
L’esperienza è stata positiva: avrà un seguito?
«Ho molte idee, ma resta intatto il desiderio di essere attrice: non si fa mai una cosa “contro”, sempre “con”. Sul set ho imparato molto di me: per esempio sono una persona abbastanza collerica, ma lì non conveniva».
Cosa cerca da spettatrice in un film?
«L’emozione: voglio che qualcuno mi racconti una storia, voglio potermi identificare. Il cinema, come l’arte, fa cadere le frontiere e ha permesso ai popoli di unirsi, più dei pomodori e del Camembert. Lo Stato dovrebbe dare più risorse. In questa situazione, la libertà creativa deve reagire o morire: ma riguardo a questo non sono pessimista».
Nel suo film la famiglia d’origine incide sull’intera vita della protagonista…
«Racconto come ci si può difendere dalla famiglia e allo stesso tempo nutrirsene: un rapporto ambiguo. Ho lottato per la mia libertà e ho sempre avuto rapporti forti e conflittuali con la mia famiglia d’origine, ma non concepisco il fatto di staccarmene completamente. Vedo sempre la vita come una lettera scritta alla propria famiglia».
Quale lezione ha ricevuto dai grandi maestri con cui ha lavorato?
«Ogni volta che sono stata su un set ho assorbito l’entusiasmo del fare un film: s’impara soprattutto dalla passione. Ho sempre amato la vita da set, nelle pause tra uno e l’altro c’è molta malinconia: un film è come la piccola creazione di un mondo».
E lei che tipo di regista è?
«Mi hanno fatto paura gli attori perché pensavo: se non entrano nella parte non c’è niente da fare. Invece ho avuto la fortuna di parlare con bravissimi attori rumeni: praticano molto il teatro e questo li rende malleabili. È stata straordinaria soprattutto Olga Tudorache, la Jeanne Moreau della Romania».
In questo film racconta qualcosa di lei?
«Sì, molto più che se avessi girato la mia biografia: sono cose profonde come ciò in cui uno crede, cosa gli fa male o bene. Non mi piace confessarmi direttamente, preferisco parlare di me attraverso una maschera, come accade al cinema o in teatro».
Cosa pensa allora dei reality show, che pretendono di restituire la vita in presa diretta?
«Il problema è del pubblico che ha bisogno di voyeurismo, di guardare cose impudiche, come una volta accadeva per i gladiatori nelle arene. Non so cosa spinge a mostrarsi, ma capisco cosa sente chi guarda: è malsano, come guardare un incidente sulla strada. Il reality non rispecchia la vita reale, per averne un’idea ci vuole anzi molto distacco».
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