FERRIERA, INUTILI ULTIMATUM
Il destino della Ferriera? Ognuno detta la propria soluzione. Sul da farsi si esprimono da anni, e con mutevoli orientamenti a seconda di chi regga il timone, la Regione, la Provincia, il Comune, le circoscrizioni e adesso pure il Parlamento. Attendiamo, chissà, una risoluzione della Commissione europea.
Chi vuole la Ferriera di Servola chiusa, chi la vuole aperta, chi risanata. Un dibattito legittimo e pure centrale per lo sviluppo della città, a cui però sfugge un dettaglio. Il dettaglio è che la Ferriera è un’azienda privata e, purché ne abbia i requisiti, produrrà finché vorrà produrre. C’è un che di surreale in una questione che si trascina senza costrutto da dieci anni e che ora ha toccato finanche Montecitorio, con scadenze e ”tavoli” che si susseguono regolarmente ignorati e sostituiti da nuove inutili scadenze, ma sempre con l’assenza dell’unico interlocutore essenziale: l’azienda.
Senza il cui consenso, facciamo una scommessa qui e ora, lo stabilimento non chiuderà. Come molti altri, chi scrive considera incompatibile la permanenza nel tempo di una fabbrica così ingombrante, e tecnologicamente obsoleta, sull’affaccio a mare di una città che punti sullo sviluppo ”leggero” e sul turismo (come poi ciò a sua volta sia compatibile con i negozi sbarrati la domenica e la dismissione del centro congressi, è un mistero; ma questa è un’altra storia). Non fu così sempre, la Ferriera nacque prima delle case circostanti.
Ma oggi la sola idea d’impiantare uno stabilimento del genere sul golfo susciterebbe una ripulsa collettiva. E però lo stabilimento può chiudere in tre sole ipotesi: che il porto non le rinnovi la concessione demaniale alla scadenza, il che è irrealistico; che la Regione revochi l’autorizzazione ambientale accordata dalla giunta precedente, ciò che richiederebbe solide motivazioni (laddove i dati delle emissioni sembrano in miglioramento); che l’azienda decida o accetti di chiudere in presenza di contropartite e di un piano di riassorbimento dei lavoratori, che è l’unica opportunità concreta e socialmente percorribile, se non si vuol gettare in strada 550 famiglie (mille con l’indotto) con un’azienda che rende. Il resto sono chiacchiere.
A lungo la Ferriera è stata in piedi non già grazie all’attività siderurgica, ma in virtù dell’energia prodotta di risulta, che l’Enel è obbligata dalla legge ad acquistare fuori mercato. Oggi però il ferro tira, e l’azienda si è detta interessata a proseguire l’attività anche quando i benefici saranno cessati (se lo saranno, nel 2009). Ebbene, l’imprenditore fa i suoi interessi ma non è Belzebù. Giunse a Trieste invocato a furor di popolo quando la fabbrica collassava, ha investito in tecnologia e – sia pure obtorto collo grazie alla pressione della magistratura – in migliorìe ambientali.
Merita rispetto come lo meritano i lavoratori e le molte migliaia di residenti che respirano l’irrespirabile. E proprio perché le esigenze sono diverse e tutte meritevoli di tutela, l’unico tavolo che conta è quello da instaurare con l’azienda, a fronte di un piano di riconversione di cui a tutt’oggi non s’è vista traccia. La Regione ha deciso di avviarlo ed è la strada giusta, purché sia rapida ma non si perda in ultimatum ridicoli. L’energia, con il rigassificatore o una futura nuova centrale abbinati all’attività portuale, è probabilmente l’opportunità concreta per un sito che sarà comunque costosissimo smantellare e bonificare. Non lo si fa in un giorno, né in un anno. Ma almeno lo si cominci a fare con serietà, lasciando che il Parlamento si occupi delle leggi e non di stabilire quando le imprese aprono e chiudono.
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