«Fuggii dal mio paese per salvarmi la vita»

Erminia Dionis Bernobi ha dovuto lasciare l’Istria nel 1946 all’età di 15 anni. Sarta di qualità comprovata dalle innumerevoli sfilate e riconoscimenti, dice di aver vissuto «una buona vita». Gli anni della sua giovinezza, però, sono segnati da esperienze difficili.
Qual è la sua storia?
Sono nata a Visinada il 15 aprile 1931. A sei anni sono rimasta orfana di mio papà, e la mamma ha portato me e le mie sorelle a Santa Domenica. A 15 anni sono dovuta scappare dall’Istria.
Perché?
Già da piccola amavo il cucito, e passavo del tempo nella sartoria di Santa Domenica. Un giorno ho sentito un uomo confessare di aver partecipato all’uccisione di Norma Cossetto, non sono riuscita a trattenermi e gli ho gridato: “Vigliacco!”.
Poi cos’è successo?
Sono scappata a casa in lacrime da mia madre. Dopo un po’ è arrivato il sarto dicendo che l’assassino di Norma mi avrebbe ucciso anche se avessi parlato. Bisognava farmi sparire, ovvero mandarmi a Trieste.
Come avete fatto?
Il sarto ha trovato una persona disposta ad accompagnarmi. Doveva già portare un bambino di 7 o 8 anni dai genitori a Trieste. Penso che mia madre abbia pagato per il mio passaggio. Prima di lasciarmi mi fece giurare che non avrei mai raccontato questa storia, perché temeva per me. E così ho fatto per decenni: non lo dissi nemmeno a mio marito e mio figlio. Poi dieci anni fa ho deciso di parlare.
Come mai?
Perché sapevo che ormai tutte le persone coinvolte erano morte. Anche quell’uomo. Spero che, così come io ho tenuto per me il segreto, egli non abbia trasmesso nulla di quel che ha fatto a figli e nipoti. Spero che nulla sia rimasto.
Com’è stato l’arrivo a Trieste?
Rocambolesco. La persona che mi aveva fatto traversare il confine mi portò da un fratellastro di mio padre, che però aveva già un figlio e non poteva ospitarmi: erano tempi difficili e il pane scarseggiava. Poi mi mandarono da una zia che, avendo una locanda, mi prese con sé. Qualche mese dopo mi disse che in una sartoria cercavano apprendiste.
Fu così che ha trovato lavoro.
Sì, non è stato facile. A quei tempi noi istriani non eravamo ben visti: dicevano che rubavamo il lavoro ai triestini. La signora della sartoria, nell’avviso, aveva scritto “preferibilmente friulana”. Io non riuscii a nascondere di essere istriana ma mi accettò comunque. Non avevo documenti, ma l’Opera profughi mi procurò un tutore che risolse l’aspetto legale.
Ha messo radici a Trieste.
E ho atteso la mia famiglia per cinque lunghi anni. Quando avevo quasi 18 anni tentai di tornare in Istria a trovarli ma mi respinsero in quanto «indesiderata». Mia madre e le mie sorelle arrivarono qui quando avevo quasi 21 anni. Abbracciarle fu una gioia infinita, grande quanto il dolore che avevo provato nell’essere lontana da loro. L’anno dopo mi sposai: mio marito era mio compaesano. Assieme abbiamo vissuto una bella vita.
Cosa prova ora nei confronti dell’Istria?
Ora i confini sono aperti e molte cose sono cambiate. Da due anni torno al paese per la cerimonia in memoria di Norma e organizzano per noi la messa e il coro in italiano. Ci accolgono a braccia aperte. Penso però che sarà difficile che loro accettino mai quanto avvenuto. Gli esuli assolutamente non sono fascisti. Sono nata sotto il fascismo, ma che colpa ne avevo? La colpa non poteva essere di noi giovani, dei ragazzi, semmai è di Mussolini che è entrato in guerra. Il male sarà iniziato da là. Poi però chi ha vinto ha vinto e ora non crede a quello che accadde dopo. Speriamo che ora lo accettino. Altrimenti il dolore si spegnerà con noi che siamo gli ultimi ad aver vissuto quei fatti.
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